Le parole di Aldo Costa, pronunciate al Ferrari Club Abbiategrasso in occasione del premio Cavallino 2025, offrono una chiave di lettura privilegiata per comprendere la fase più complessa vissuta da Lewis Hamilton negli ultimi anni. Costa non è un osservatore qualsiasi: è stato ingegnere di riferimento della Mercedes dal 2011 al 2019, padre concettuale delle vetture che hanno dominato la Formula 1 ibrida, e ha vissuto Hamilton da dentro, vedendolo lavorare e migliorare giorno dopo giorno. È anche un ex direttore tecnico Ferrari, quindi conosce bene il peso culturale e operativo dei due mondi in cui il sette volte campione ha costruito la propria carriera.
Le sue riflessioni, raccolte da Umberto Zapelloni, vanno oltre la semplice analisi tecnica: definiscono la struttura mentale, metodologica e umana di un pilota che ha bisogno di condizioni molto specifiche per esprimersi al massimo. Costa descrive Hamilton come un “inglese-inglese” che per la prima volta ha affrontato un cambio di ambiente totale. E questo elemento, per un pilota profondamente legato ai propri rituali interni e al proprio sistema di fiducia, non è un dettaglio: è il cuore del problema.

Lewis Hamilton visto da chi lo conosce
Secondo Costa, i primi mesi di Hamilton nel nuovo contesto sono stati inevitabilmente sfidanti. Il passaggio a un ambiente con dinamiche differenti ha messo a dura prova la sua capacità di ritrovare punti di riferimento solidi. Hamilton è un pilota che costruisce le proprie prestazioni attraverso un nucleo ristretto di figure chiave: l’ingegnere di pista, il direttore tecnico, il capo progettista.
È un sistema piramidale, in cui l’apice rappresenta il pilota, ma la base – se non è compatta, allineata e fidata – rende instabile tutto il resto. Per lui, fidarsi ciecamente di quel nucleo è tanto importante quanto il comportamento della vettura in curva.
Costa lo dice chiaramente: Hamilton deve sentirsi l’alfiere centrale della squadra. Deve percepire che il team lo considera la punta della lancia, il riferimento attorno a cui si costruisce l’intero progetto sportivo. Se questa percezione viene meno, se l’atmosfera non restituisce quel ruolo di leadership tecnica ed emotiva, allora anche la prestazione ne risente. L’ingegnere italiano non lo afferma come un difetto: è la specificità di un campione che ha bisogno di un quadro psicologico perfettamente definito e stabile per andare oltre i limiti della macchina.
A complicare la situazione, osserva ancora l’ingegnere, c’è stata la presenza di un compagno di squadra velocissimo, perfettamente integrato e molto amato dal gruppo. Un contesto che, per un pilota abituato a essere il fulcro del progetto, rappresenta un ulteriore elemento di destabilizzazione. Costa non lo dice esplicitamente, ma il sottotesto è evidente: il confronto interno non è solo tecnico, ma identitario, ed è lì che Hamilton può aver sentito mancare quel terreno solido che per anni aveva rappresentato la base del suo rendimento straordinario.

La conclusione di Costa non è una critica, ma un’indicazione precisa: Hamilton va gestito con attenzione. Va seguito, stimolato, accompagnato nel costruire un rapporto di fiducia profondo con il team. Solo così può tornare a esprimere quella combinazione di velocità pura, sensibilità di guida e capacità di trascinare il gruppo che nei suoi anni d’oro lo ha reso, a tutti gli effetti, una forza quasi inarrestabile.
Il ritratto delineato da Aldo Costa è di una chiarezza rara: Hamilton è un campione totale, ma anche un atleta che ha un preciso ecosistema mentale in cui la sua resa esplode. Al di fuori di quel paradigma, anche un talento come il suo può attraversare momenti difficili. Ma, aggiunge tra le righe Costa, quando quell’equilibrio viene ricostruito, pochi al mondo possono correre come lui. E forse il 2025 è stato un anno di necessario adattamento in vista di un 2026 – complice nuove regole tecniche – da assoluto protagonista.
Crediti foto: Mercedes-AMG Petronas F1 Team, Scuderia Ferrari HP
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