C’è una malattia che sta divorando la Formula 1 moderna, e non la cura nessun regolamento tecnico. Si chiama ossessione per i dati. È un morbo subdolo che ha contagiato tutto e tutti: team, piloti, media, persino i tifosi. È la religione della telemetria, la fede cieca nei numeri, la convinzione che tutto si possa spiegare con un grafico. Il risultato? Una F1 che crede di essere più intelligente, ma in realtà è solo più cieca.
L’ultimo episodio è l’ennesimo campanello d’allarme. Dopo la collisione tra Leclerc, Piastri e Antonelli alla ripartenza dopo la safety car nel Gp del Brasile, Charles non ha esitato a puntare il dito: “Non c’era niente di rischioso nella mia manovra. Sono molto inca**ato. Rifarei lo stesso 20 volte, hanno sbagliato all’interno. Antonelli poteva fare di più per evitarla”. Una dichiarazione esagerata, fuori luogo, ma che in fondo dice una verità più grande: oggi in F1 nessuno si assume più il peso dell’imprevisto. Sono per primi i piloti a lamentarsi se qualcuno è aggressivo e mostra spirito da racer puro.

Non è finita qua. Come sempre accade, appena un pilota apre bocca, ecco scattare la solita giostra di analisi telemetriche, fotogrammi, dati GPS, vettori e diagrammi di forza G. Tutti a cercare la verità nei numeri, come se bastasse una linea colorata per spiegare una manovra a 300 all’ora. È la nuova frontiera della sterilità sportiva: un modo per far credere che l’errore non esista – o al contrario che esista per forza anche quando non c’è (è il caso di Antonelli) – che tutto sia calcolabile, che la corsa sia un’equazione perfetta.
Ma la Formula 1 non è un laboratorio. È rischio, istinto, improvvisazione. È quella frazione di secondo in cui scegli se restare giù col piede o mollare. È la differenza tra chi ha il coraggio e chi preferisce affidarsi a un ingegnere con la tabella dei dati in mano.
La deriva del tecnicismo matematico negli sport
Nel calcio, questa malattia si chiama data football: si parla più di expected goals, heatmap e pass accuracy che di intuito o di classe. Tutti a leggere numeri, pochi a guardare le partite. In Formula 1 è lo stesso delirio: la gente discute più del punto di frenata e dell’apertura del DRS che di chi ha avuto la visione giusta, il coraggio di infilarsi dove nessuno avrebbe osato.
E così la corsa si svuota, diventa un esercizio di stile, un Excel ad alta velocità. Le manovre vengono sezionate con la freddezza di un’autopsia, i piloti giudicati come se fossero software da aggiornare. Ma chi guarda ancora la corsa per quello che è? Un confronto tra uomini e limiti, non tra grafici e vettori.
La verità è che l’analisi dei dati, nata per capire di più, oggi troppo spesso serve a giustificare chi sbaglia o a demolire chi osa. Ogni incidente diventa un processo, ogni sorpasso un calcolo di rischio, ogni decisione una proiezione statistica. Si dimentica che in pista non c’è il tasto “pausa”. Non c’è la revisione al rallentatore. C’è solo un rettilineo che finisce, una curva che si avvicina e due auto che vogliono arrivare nello stesso punto.

Chi guarda la F1 solo attraverso le telemetrie dimentica che il motorsport è fatto di imperfezioni. Senza rischio non c’è emozione, e senza emozione la Formula 1 è solo un rumore di fondo. Il paradosso è che più i team e i commentatori si riempiono la bocca di dati, meno capiscono cosa hanno davanti. Si perdono il gesto, l’intuizione, la follia che rende unico un pilota.
La telemetria ti dice tutto, tranne ciò che conta davvero: chi ha avuto il coraggio. Finché la F1 continuerà a farsi schiava dei numeri, continuerà a perdere pezzi di anima. E quando anche il rischio sarà diventato un algoritmo, ci accorgeremo troppo tardi che la corsa vera non si misura in millisecondi, ma in emozioni.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP, F1
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