Quando Michael Schumacher firmò per la Ferrari alla fine del 1995, non ero tra quelli che stapparono lo spumante. Anzi. Per me, cresciuto nel mito del Cavallino rampante forgiato dal genio e dalla passione di Enzo Ferrari, quel passaggio era un colpo al cuore. Non si trattava solo di tifo, ma di identità. La Ferrari rappresentava qualcosa di più di una squadra: era l’orgoglio italiano che vinceva sulle piste del mondo da molto prima che io nascessi.
Quella Ferrari che non era più “nostra”
Le scelte di Luca Cordero di Montezemolo mi lasciarono perplesso. Non solo per l’arrivo di Schumacher, ma perché si tradiva, almeno ai miei occhi, una certa idea di Ferrari. Il rapporto storico con l’ENI, simbolo della benzina italiana, veniva sacrificato in favore di Shell. E con Michael arrivarono Ross Brawn, Rory Byrne e tanti altri tecnici Benetton. Uno schiaffo agli uomini di Maranello: meccanici, ingegneri, uomini di pista cresciuti all’ombra del Drake e che ogni giorno instancabilmente lavoravano per far vincere la Rossa sembravano non essere più capaci a fare il loro dovere che era anche la loro passione.
Io ero un tifoso Ferrari, certo, ma a quei tempi i piloti rischiavano grosso ed erano soprannominati “i cavalieri del rischio”: mi esaltavano, soprattutto quelli che sentivo “miei”. Lauda e Regazzoni, poi Scheckter e Gilles – che per noi non era un pilota, ma un inno alla vita. E ancora Michele Alboreto, Riccardo Patrese, Elio De Angelis, fino a Nigel Mansell, con il suo stile tutto cuore. Alcuni di loro avevano corso facendo cose epiche con la Ferrari, anche senza vincere mondiali. Erano il simbolo di una passione pura, ruvida, mai addomesticata.

E poi c’era quel fantasma che non smetteva di fare male: Ayrton Senna. Sapevo – sapevamo – che avrebbe potuto arrivare in rosso nel 1990, poi ancora nel 1994 al posto di Prost. Ma due volte, la dirigenza FIAT bloccò tutto. Troppo caro, troppo ingombrante, troppo libero, forse semplicemente troppo… in effetti fino ad allora la Ferrari non aveva mai assunto campioni del mondo, iniziò proprio con il suo eterno rivale. E invece di vederlo realizzare quel sogno in rosso, lo perdemmo. Per sempre. Vedere che al suo posto arrivava un tedesco presuntuoso, arrogante, pieno di sé – almeno così lo vedevamo allora – mi disturbava. Perché Senna era “Magic”. Schumacher no. Non ancora.
La prima vittoria in rosso: Barcellona 1996
Quando Schumacher vinse la sua prima gara con la Ferrari a Barcellona, fu un momento storico. Ma per me non fu una celebrazione spensierata. Quel trionfo era carico di contraddizioni. Da una parte, vedevo finalmente la rossa tornare a vincere dopo anni difficili; dall’altra, sentivo che una storia stava per finire e forse ne stava iniziando una nuova.
Michael era un talento straordinario, indubbiamente. La sua guida era precisa, implacabile, e portava con sé una voglia di vittoria che sembrava inesauribile. La sua prima vittoria in rosso rappresentava tutto questo: sotto una pioggia battente, impantanato a centro gruppo dopo una partenza non eccelsa, non sbagliò una frenata, e con una costanza impressionante risalì posizione su posizione e alla fine la classifica diceva:
- Schumacher
- Alesi a 45 secondi
- Villeneuve a 48 secondi
tutti gli altri doppiati.
Una dimostrazione di forza e abilità degna del paragone con il mito di Senna ancora negli occhi di molti, o quanto meno nei miei. Ma il suo stile, il suo carattere, non rispecchiavano quella italianità fatta di passione e cuore che avevo sempre ammirato nei miei idoli di un tempo. C’era distanza, e a tratti diffidenza.
Quella vittoria a Barcellona fu anche la conferma che Montezemolo aveva scelto una strada nuova, una strada che privilegiava la tecnologia, la strategia e la freddezza tedesca e inglese a discapito di quel calore umano tutto italiano che per me era il vero cuore della Ferrari.

Un amore diviso tra il cuore e la ragione
Nonostante tutto, non potevo non riconoscere il valore di Schumacher. Era un campione che trascinava la squadra fuori dal baratro, che riportava la Ferrari in cima al mondo. Eppure, quel campione, con quel casco con i colori tedeschi, non era ancora riuscito a conquistare del tutto il mio affetto.
La mia passione per la Ferrari era divisa. Da un lato, il tifo per la scuderia, che volevo vedere vincere a ogni costo. Dall’altro, una sorta di nostalgia per un’epoca che non c’era più, per quei piloti che avevano corso con il cuore per quell’identità che sentivo tradita.
Guardando indietro, con rispetto
Quella vittoria a Barcellona fu l’inizio di un nuovo capitolo. La pioggia lavò via non solo la polvere sull’asfalto, ma anche parte dei miei dubbi, dei miei rancori. Schumacher aveva scelto la sfida più difficile, riportare in alto la Ferrari, ricostruirla pezzo dopo pezzo. E ci riuscì.
Con il tempo, vittoria dopo vittoria, mi ritrovai a tifare per lui. Non fu una conversione improvvisa, ma un processo lento, fatto di rispetto guadagnato giorno dopo giorno. Perché il talento può affascinare, ma è la dedizione che conquista davvero. E Schumacher ne aveva da vendere. A Fiorano era il primo ad arrivare, spesso quando il sole non era ancora sorto, e alternandosi con Badoer – amico fidato e collaudatore – percorreva centinaia di giri per mettere alla prova ogni nuova idea degli ingegneri della GES. E alla fine di quelle lunghe giornate era l’ultimo ad andare via. Sempre.
Non era solo meticoloso, era coinvolto, fino in fondo. Anche il suo apparente distacco davanti alle telecamere, quando parlava in inglese o in tedesco, non era freddezza: semplicemente non si sentiva degno di usare l’italiano in pubblico, pur parlandolo ogni giorno nel box. E in quel rispetto, in quella timidezza nascosta dietro l’immagine del campione, cominciai a vedere l’uomo.
Oggi, quando penso a lui, penso a un uomo che ha dato tutto per la sua passione. Un campione che ha costruito due dinastie. La prima con la Ferrari e poi gettando le fondamenta per la Mercedes vincente nella prima era ibrida. Eppure, da dodici anni, vive nel silenzio più profondo. Un’assenza che pesa, che fa male. Come una leggenda sospesa nel tempo, di cui non si conosce il destino.
E allora, ogni volta che rivedo quelle immagini sotto la pioggia di Barcellona, penso che quel giorno non vinse solo la Ferrari. Vinse anche un uomo di cui, ancora una volta, la Rossa avrebbe tanto bisogno.
Brizio, 28 maggio 2025
Crediti foto: F1