Certe parole pesano più di altre. Quando è Nigel Mansell a parlare di Ferrari, non si tratta mai di dichiarazioni di circostanza. È un uomo che ha conosciuto Maranello da dentro, nel bene e nel male. Che ha indossato il Rosso come un vessillo, e che ha sperimentato l’ebbrezza della vittoria e la frustrazione dell’incompiuto. Per questo il suo auspicio – che la Ferrari torni a essere una squadra da titolo per permettere a Lewis Hamilton di competere al vertice – non è semplice nostalgia, ma una richiesta di giustizia tecnica e sportiva.
L’operazione Hamilton-Ferrari è stata, fin dal principio, molto più di un trasferimento. È stato un messaggio: il più grande pilota dell’era moderna che accetta la sfida più simbolica, quella che trascende il risultato e si lega al mito. Eppure, a metà 2025, il bilancio è ancora in debito: una vittoria nella sprint cinese, zero podi nelle gare principali, un sesto posto in classifica con 103 punti. Non è il ruolino di marcia che ci si aspetterebbe da un sette volte campione del mondo. Non è quello che egli stesso si aspettava.

Dal palco del Goodwood Festival of Speed tenutosi la settimana scorsa, il Leone di Upton-Upon-Servern ha saputo unire ironia e lucidità. “Mi sarebbero serviti dieci anni per guadagnare quello che prende lui in uno”, ha scherzato, per poi tornare serio: “Mi auguro che la Ferrari ritrovi quello che aveva l’anno scorso. Ha perso qualcosa questo inverno, ma dovrebbe competere al top”. È un’affermazione che pesa. Perché arriva da chi, proprio come Hamilton, ha creduto nella “Ferrari britannica”. E ha sperato, senza compiacenze.
Il problema, però, non è solo romantico. È profondamente sportivo. La Ferrari che, con la SF-24, nel 2024 aveva lottato ruota a ruota con la McLaren fino all’ultima gara ad Abu Dhabi, oggi è sì seconda nel Mondiale Costruttori, ma con un distacco abissale: 238 punti dalla scuderia di Zak Brown, la rivale di sempre. La squadra di Woking è diventata dominante, la Rossa si è impantanata in una crisi di sviluppo, più che di concetto. È come se qualcosa si fosse inceppato nell’inverno, come se il DNA competitivo del team si fosse dissolto nei meandri di una transizione tecnica mai veramente completata.
Hamilton, dal canto suo, non è meno motivato. Ma a 40 anni suonati, non è più il momento delle costruzioni a lungo termine. È ora di concretizzare. Per questo le parole di Mansell suonano come un promemoria: non per Lewis, ma per la Ferrari stessa. Il tempo del prestigio non basta più. Serve prestazione, serve continuità. Serve, soprattutto, ricordarsi che avere Hamilton in squadra è un privilegio che impone obblighi. Non solo speranze.

Perché se la Ferrari non sarà in grado di offrirgli una macchina da titolo, allora la storia – e i suoi tifosi – rischiano di restare con un altro “e se…” scolpito nella memoria. Quel “se” che sta connotando la carriera di Charles Leclerc, un pilota che oggi è vittima del suo amore per la rossa che non ha ancora corrisposto con una vettura degna del talento del monegasco.
Il 2025 è ormai andato perché non ci si aspetta che la nuova sospensione testata al Mugello ribaldi le prospettive. Ma dal 2026, quando si aprirà un nuovo ciclo tecnico che durerà un lustro, il Cavallino deve essere là davanti a trottare. Perché la storia e il prestigio te le guadagni in pista altrimenti restano un retaggio di una nobiltà decadente, quella tipica dei reali senza regno.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP
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