Nel panorama dei circuiti che compongono la storia dell’automobilismo, pochi possono vantare lo status iconico di Spa-Francorchamps. Non soltanto per i momenti storici o tragici che hanno segnato la sua esistenza, ma per la sua natura stessa: Spa non è soltanto un contenitore di eventi, è esso stesso evento, sostanza viva del motorsport. È un circuito che ha plasmato la Formula 1, e che continua a definirne i confini.
Le origini: una sfida nata tra le strade
Nato nei primi anni Venti, Spa prese forma sfruttando la rete stradale che univa Malmedy, Stavelot e Francorchamps. Il risultato fu un tracciato di oltre 14 chilometri che mescolava velocità, rischio e pura adrenalina. Non c’erano vie di fuga, solo alberi e pali della luce a bordare l’asfalto. Ed era proprio questo a fare la differenza: chi vinceva a Spa, non era semplicemente più veloce; era più coraggioso, più temerario, più capace di danzare sul filo del rasoio.
Con l’aggiunta, sul finire degli anni Trenta, della celebre sezione Eau Rouge-Raidillon, il circuito acquistò un’identità visiva e tecnica senza paragoni. Quel tratto, che unisce un cambio di direzione rapidissimo a una compressione verticale devastante e a un’altrettanto brutale decompressione, diventò la firma di Spa. Una firma che richiede assoluta perfezione: entrare forte significa fidarsi completamente della macchina e dei propri riflessi, ma un errore di pochi centimetri equivale a uscire di scena contro le barriere.

Anni d’oro, tragedie e rivoluzioni
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il tracciato venne ulteriormente velocizzato, rendendo Spa uno dei circuiti più temuti e ammirati del mondo. Curve come Malmedy e Blanchimont mettevano alla prova anche i più audaci. Il pericolo era una costante: incidenti gravissimi e spesso fatali resero evidente la necessità di un cambiamento.
Negli anni Sessanta, con l’introduzione degli alettoni e l’aumento della velocità in curva, i piloti iniziarono a far sentire la propria voce. Il sindacato impose una riflessione sulla sicurezza, e la Formula 1 abbandonò temporaneamente Spa, spostandosi su tracciati più corti e moderni come Nivelles e Zolder.
Fu solo alla fine degli anni Settanta che Spa-Francorchamps ritornò nel calendario iridato, ma con un volto nuovo. La configurazione venne profondamente rivista: rimasero alcuni tratti del tracciato originale, ma la nuova pista, lunga poco meno di sette chilometri, fu in parte permanente e in parte ancora ricavata da strade pubbliche. Era l’inizio di una nuova era.
Un laboratorio naturale per i campioni
Il contesto geografico di Spa è unico. Situato nel cuore delle Ardenne, il tracciato è spesso vittima – o protagonista – di condizioni meteo imprevedibili. Non è raro che, durante una gara, una parte della pista sia colpita da un acquazzone mentre l’altra resta asciutta. È in questi momenti che emergono i piloti con sensibilità superiore: leggere l’asfalto, intuire il grip disponibile, scegliere la traiettoria giusta senza riferimenti. Spa separa i buoni dai grandi.
Negli anni il circuito ha subito ulteriori modifiche, dettate dalla necessità di garantire maggiore sicurezza senza alterarne l’essenza. Oggi, con i suoi 7.004 metri, rappresenta la perfetta sintesi tra passato e presente: un impianto tecnico, veloce, vario, che continua a esaltare le qualità dei piloti.
Un esempio di come dovrebbe essere una pista
In un’epoca in cui i circuiti di nuova generazione sembrano usciti dallo stampo di un designer troppo attento alle tribune e troppo poco all’asfalto, Spa-Francorchamps continua a essere un punto di riferimento. È la dimostrazione concreta che si può intervenire su un tracciato senza tradirne l’anima. Il confronto con circuiti come Hockenheim – mutilato della sua storica sezione nella foresta – è impietoso.
Spa insegna anche che un circuito può (e deve) essere tridimensionale. I saliscendi delle Ardenne sono parte integrante dell’esperienza, qualcosa che nessun circuito costruito nel deserto potrà mai replicare. Altimetria, ritmo, imprevedibilità: elementi che mancano in molti autodromi moderni, dove tutto è troppo piatto, troppo prevedibile, troppo… artificiale.
Spa-Francorchamps non è soltanto un luogo dove si corre. È un banco di prova, una cattedrale del motorsport, un’idea di ciò che la Formula 1 è stata e dovrebbe continuare a essere. Un circuito che chiunque disegni tracciati oggi – o domani – dovrebbe studiare con rispetto e umiltà.

Spa-Francorchamps e la memoria corta di Liberty Media
Eppure, nonostante tutto questo, Spa-Francorchamps diventerà una presenza intermittente nel calendario di Formula 1. Liberty Media, attuale proprietaria del campionato, ha infatti inserito il tracciato belga all’interno del circuito delle rotazioni, relegandolo a una partecipazione a cadenza variabile nei prossimi anni. Una decisione che appare miope, se non addirittura sacrilega, se si considera il valore culturale, sportivo e simbolico che questo tracciato incarna da oltre un secolo.
Privare il mondiale di Spa con regolarità significa amputare la Formula 1 di una delle sue radici più profonde. È l’ennesimo segnale di una gestione che guarda sempre più ai mercati emergenti e sempre meno al patrimonio culturale del campionato. La storia, le tradizioni, i luoghi che hanno forgiato leggende, sembrano oggi elementi sacrificabili sull’altare dell’intrattenimento globale.
La Formula 1 dovrebbe custodire Spa come si farebbe con una reliquia, non trattarla come un’opzione tra le tante. Il motorsport ha bisogno di futuro, ma non può permettersi di dimenticare da dove viene. E Spa-Francorchamps è, senza alcun dubbio, una delle sue origini più nobili.
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