Mancano quattro Gran Premi e due Sprint alla fine del Mondiale di Formula 1 2025 e, mentre la McLaren è alle prese con la gestione di Lando Norris e Oscar Piastri – separati da un solo punto nella classifica piloti – in casa Red Bull si respira quella calma che sa di fiducia e della consapevolezza di chi non ha nulla da perdere.
Max Verstappen, terzo in classifica a 36 lunghezze dalla vetta, non guarda i numeri, osserva la sua storia e quella del suo team. E Helmut Marko, dal canto suo, non perde occasione per ricordare a tutti che la squadra di Milton Keynes ha costruito la propria grandezza proprio nei momenti in cui gli altri vacillano. E spesso lo ha fatto all’ultima occasione buona.
“Anche se a Singapore e in Messico non è andata al cento per cento per noi, abbiamo guadagnato punti sul leader del mondiale. E sono ormai cinque weekend di fila”, ha spiegato Marko al Krone, evidenziando come la Red Bull non abbia mai realmente mollato la presa. Ora arriva il Brasile, il luogo dove “lo scorso anno abbiamo fatto un passo importante verso il titolo”, un messaggio che suona quasi come un avvertimento agli avversari.

A fare da contraltare c’è la McLaren, sempre più prigioniera delle “papaya rules”, la scelta di lasciare i piloti liberi di correre senza gerarchie interne. Una filosofia di squadra che diverte i tifosi, che è eticamente blindata ma che raramente paga quando il campionato entra nella sua zona rossa. Marko lo sa bene e con un pizzico di ironia, la solita, aggiunge: “Da quanto ho capito, la McLaren intende lasciare liberi di correre i propri piloti sino alla fine. Forse Piastri ci renderà più difficile la rimonta”.
È una frecciata sottile, ma pesante. Perché la Red Bull – con Verstappen prima e Vettel ieri – ha costruito la propria cultura sportiva su un principio semplice: il successo nasce dalla compattezza, non da regole interne ferree ma penalizzanti. E quando Marko evoca il 2010, anno del primo titolo mondiale firmato Sebastian Vettel, non lo fa per nostalgia, ma per riaffermare un concetto: la Red Bull vince perché non teme la pressione.
“Ad Abu Dhabi Sebastian si presentò terzo nel mondiale dietro ad Alonso e Webber e poi ha vinto. Spero che quest’anno possa ripetersi lo stesso scenario. D’altronde non abbiamo vinto il titolo all’ultima gara solo nel 2010, ma anche nel 2012 e nel 2021 con Max addirittura solo all’ultimo giro. Abbiamo una certa esperienza in questo”, ha osservato il dirigente di Graz.

Le parole sopra riportate raccontano di una squadra abituata a vivere il rischio come condizione naturale. Mentre la McLaren deve ancora capire come gestire due talenti affamati ma senza una guida chiara, la Red Bull si prepara all’assalto finale con la consapevolezza che, in fondo, la mentalità dei campioni è saper vincere quando gli altri si perdono nei propri dubbi.
E anche nel momento in cui si parla del futuro – del compagno di Verstappen per il 2026 e di un vivaio che continua a sfornare promesse – Marko mostra la stessa lucidità: “Ci sono ancora molti soldi in ballo, siamo a soli 10 punti dal secondo posto nei costruttori e Yuki Tsunoda ha un trend in crescita”, ha ricordato, prima di lanciare l’ennesimo messaggio criptico: “Lindblad? Nelle prove in Messico con lo stesso programma di Yuki è stato più veloce di lui. Sicuramente è un uomo su cui contare per il futuro”.
Forse la scuderia austriaca non è perfetta (alcune difficoltà sono state evidenti negli ultimi tempi), ma è mentalmente granitica. E se Verstappen dovesse davvero riuscire a completare la rimonta, non sarebbe un miracolo: sarebbe semplicemente la conferma di una franchigia che ha fatto della pressione il proprio habitat naturale. Dove gli altri vedono limiti, Milton Keyens riesce a cogliere opportunità. A Woking si discutono regolamenti interni e libertà di duello, altri vanno dritti per la propria via.
Crediti foto: Oracle Red Bull Racing, Formulacritica
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