È una tentazione antica che non risparmia il mondo della Formula 1: quella di ridurre storie complesse, cicli vincenti e sconfitte di corto muso a un solo nome, a un solo volto, a un solo colpevole. Helmut Marko, nel momento in cui ha chiuso il suo lunghissimo rapporto con la Red Bull, ha scelto di cedere a questa tentazione. E lo ha fatto nel suo stile non filtrato e pungente, lasciando intendere che Max Verstappen sarebbe diventato campione del mondo anche nel 2025 se Christian Horner fosse stato esonerato prima.
Un’affermazione che pesa, soprattutto alla luce di un dato che rende la ferita ancora più sanguinante: Verstappen ha chiuso il mondiale alle spalle di Lando Norris per soli due punti. Due. Un’inezia statistica che, nel racconto del vegliardo ex manager, diventa la prova definitiva di una gestione sbagliata, di un uomo che avrebbe creato condizioni ostative per il team nel momento decisivo. Il riferimento, ovviamente, è all’Horner-gate e alla lotta interna alla Red Bull tra l’ala austriaca e quella thailandese. Una narrazione brutale e profondamente ingenerosa.
Perché se è vero che la Red Bull degli ultimi due anni ha mostrato crepe evidenti, tensioni interne e una progressiva perdita di centralità tecnica, è altrettanto vero che cancellare Christian Horner dall’equazione significa riscrivere la storia con una memoria selettiva. Una memoria che trattiene solo gli errori finali e dimentica deliberatamente le fondamenta.
La Red Bull vincente è una creatura di Christian Horner
Horner non è stato soltanto il team principal nel momento della crisi. È stato, prima di tutto, l’architetto politico e organizzativo di una struttura che ha trasformato una squadra nata quasi per gioco, figlia di un’operazione di marketing, in uno dei soggetti più solidi e temuti della Formula 1 moderna. È sotto la sua gestione che la Red Bull ha imparato a parlare il linguaggio del potere, a sedersi ai tavoli giusti, a difendere i propri interessi regolamentari e sportivi come fanno le grandi squadre storiche.
Ed è sempre sotto Horner che Max Verstappen ha trovato l’ambiente ideale per diventare quello che è diventato: un pilota totale, sostenuto senza ambiguità, protetto nelle fasi più controverse della sua crescita, messo al centro di un progetto tecnico e sportivo senza compromessi. Quattro titoli mondiali non nascono dal nulla e non sono il frutto esclusivo del talento del pilota, per quanto straordinario. Sono il risultato di un ecosistema che funziona, di una catena decisionale chiara, di una leadership capace di attirare e trattenere competenze di primissimo livello.
Su tutte, una: Adrian Newey. Anche questo sembra un dettaglio che Marko ha scelto di archiviare in fretta. Newey non è semplicemente “arrivato” in Red Bull. Ha accettato una sfida che, all’epoca, appariva quasi illogica: rimettersi in discussione in un gruppo giovane, lontano dalle certezze delle grandi dinastie tecniche, guidato da un management senza pedigree storico in Formula 1. Se lo ha fatto è perché qualcuno gli ha garantito visione, autonomia, stabilità. Quel qualcuno si chiama Christian Horner.
Dire oggi che tutto è colpa sua, che bastava rimuoverlo prima per consegnare a Verstappen il quinto titolo consecutivo, significa ignorare volutamente la complessità di una stagione decisa su dettagli infinitesimali. Due punti possono essere una strategia sbagliata, un pit stop lento, una safety car, una bandiera gialla nel momento sbagliato. Possono essere anche il prezzo di un ciclo che sta fisiologicamente arrivando alla fine, dopo anni di dominio assoluto.
Il rapporto tra Marko e Horner è stato segnato da contrasti sempre più evidenti negli ultimi anni, da visioni divergenti e da una lotta di potere mai del tutto nascosta. È umano, forse inevitabile, che nel momento dell’addio emerga la versione più aspra, più accusatoria. Ma un editoriale onesto non può limitarsi a raccogliere una dichiarazione e trasformarla in un verdetto.
La verità, probabilmente scomoda per tutti, è che la Red Bull del 2025 ha pagato una somma di fattori: la crescita degli avversari, errori strategici, una macchina nata maluccio e che è stata corretta in corsa con molti sforzi, tensioni interne e un contesto regolamentare che smorza le velleità di rimonta. Attribuire tutto a Christian Horner non è un’analisi, è una semplificazione. E la Formula 1, come la storia recente della franchigia di Milton Keynes insegna, non è mai stata un gioco per semplicisti.
Se oggi Max Verstappen è un quattro volte campione del mondo, se la Red Bull è stata per anni il riferimento assoluto della categoria, una parte consistente del merito appartiene anche all’uomo che ora viene indicato come il principale responsabile del fallimento. Dimenticarlo può essere comodo. Ma non lo rende meno vero.
Crediti foto: Oracle Red Bull Racing
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