Michael Schumacher, il cavaliere rosso – Era una fredda mattina di novembre, molto presto; il cielo era ancora scuro eppure i miei occhi erano già ben aperti. Un giorno speciale, diverso da tutti gli altri, atteso da più di 10 anni… Una vita per un ragazzino.
Dai tempi in cui, poco più che bambino, rimasi folgorato proprio da un Gran Premio del Giappone, in una domenica mattina in cui, saltando la consueta messa domenicale, rimasi a casa a fare zapping in tv, pervaso dall’odore del ragù in cottura a fuoco lento, che in Puglia era più che un’istituzione, quasi un dovere.
Scelsi, tra le tante monoposto bellissime e dai colori più vari, subito quella rossa: la più bistrattata e sfortunata. Non vinceva il mondiale dal lontano 1979 e inanellava fallimenti su fallimenti, ma emanava fascino e odore di asfalto. Perché, pur arrancando, la Ferrari era la scuderia che più di tutte cercava la vittoria, essendo questa parte integrante della propria storia. Ma da troppi anni il divario tecnico con gli odiati inglesi si era fatto troppo rilevante.
Avevo trovato il team perfetto, quello che le prendeva sempre ma non mollava mai. Ero dalla parte giusta, quella dei più deboli ma con più cuore, come siamo noi italiani: criticoni, divisi su tutto, eppure uniti da una passione che è quasi una religione.
Anni difficili per un piccolo tifoso che ogni settimana correva in edicola a comprare Autosprint per sapere come erano andati i test, quali novità avevano provato, e quanto i tempi di Fiorano o del Mugello fossero incoraggianti. E così, alle narrazioni dei vari Cavicchi, Donnini, Antonini e Maria Mannucci, si poteva sognare fino al weekend del gran premio, dove le speranze venivano puntualmente deluse con ritiri o distacchi siderali al traguardo. Ma non importava, perché tanto in settimana c’erano nuovi test con tante novità. E si tornava a sperare!

Il pilota in rosso che ho amato più di tutti è stato Jean Alesi, uno difficile da descrivere per chi non l’ha vissuto. Un coraggioso tutto cuore che si dannava per portare quel trabiccolo rosso più avanti di tutti, ma non ci riusciva mai perché spesso esagerava o faceva fatica a gestire con calma le situazioni. Eppure, dopo ogni delusione in cui veniva da buttare tutto in aria, lui si rialzava e ricominciava da capo, mettendocela tutta.
Un perdente le cui sconfitte onorevoli valevano più delle vittorie di tanti altri… impossibile non amarlo! A fine anno, Autosprint titolava “Jean Alesi Babbo Natale, regalaci il mondiale”; era quello che tutti noi ferraristi, quell’anno, avevamo scritto nella letterina indirizzata al Polo Nord.
Eppure, nel 1993, quando dai rally arrivò un uomo piccolo di statura ma con il piglio fiero di Napoleone, suo conterraneo, qualcosa cambiò. La Ferrari iniziò a trasformarsi lentamente da team di perdenti e sognatori a team di cinici vincitori, e così per gente come Alesi non ci fu più spazio. A fine 1995 si consumò il tradimento: il figlio prediletto, amato da tutti i tifosi, fu messo alla porta per far spazio al freddo tedesco, che, pur fortissimo e vincente, era quanto di più lontano dallo stile di Maranello si potesse concepire.
Michael Schumacher: il debutto che mise in chiaro le cose
Il suo debutto in tuta bianca a Estoril fu un vero e proprio risveglio dal torpore: salì sulla 412T2 e stampò il record della pista, esclamando “Come avete fatto a perdere con un motore così?”. Era il potentissimo 044 V12, figlio dell’ingegner Lombardi, che andava in pensione con il suo papà per fare spazio al più moderno e compatto 046 V10.
Questo debuttò sulla pista di Fiorano sotto gli occhi del suo progettista, Gilles Simon, con un tifoso presente a bordopista in quella mattina piena di foschia, per ascoltare i primi vagiti del nuovo V10, che appese un fiocco azzurro alle recinzioni della pista.

Nel 1996, durante la presentazione della F310, imparai qualcos’altro sul nuovo condottiero della rossa. Innanzitutto, quando fu svelata la monoposto, che aveva due protezioni laterali tipo muraglia cinese e una specie di doppio fondo che riportava dritti al progetto fallimentare di Migeot del 1992, lui non fece una piega. Era sempre lì, impassibile, e si vedeva che aveva solo voglia di guidarla, anche se le premesse erano tutt’altro che confortanti.
Poi, quando l’avvocato Gianni Agnelli fece una delle sue raffinate e taglienti battute, rispondendo a chi parlava solo di amore per Maranello che il tedesco non era arrivato per un tozzo di pane, lui non si scompose; accennò un sorriso, un po’ perché ci capì poco e un po’ perché sapeva che era la verità.
Schumacher, personalmente, non mi è mai piaciuto per molti episodi avvenuti tra il 1994 e il 1995 e mal digerivo l’idea di dover tifare per lui, ma era obiettivamente l’unico in grado di compiere il miracolo. Infatti, al suo primo anno in rosso, guidando un’autentica “bagnarola” da cui si staccavano addirittura i semiassi (cosa mai più vista nei successivi 30 anni di F1), riuscì a vincere 3 gare, facendo addirittura 4 pole position e 2 giri veloci. Mi inchinai obtorto collo a cotanto talento.
Nel 1997 Michael lottò come un leone contro un avversario nettamente più forte come la Williams. La Ferrari appariva in netta crescita, mentre il team che da poco aveva lasciato la sede storica di Didcot era al tramonto, soprattutto per l’addio alla F1 del motorista Renault. Su questa consapevolezza il tedesco arrivò a giocarsi il mondiale all’ultimo appuntamento di Jerez, dove però subì una dura lezione in pista e fuori per la manovra su Villeneuve, ennesima macchia su una carriera da leggenda.
Nel 1998 le speranze erano davvero tante e i tempi sembravano finalmente maturi. La Ferrari ormai era una certezza e la Williams con il motore Mecachrome non faceva più paura, ma tutto finì prima di cominciare: a Jerez scese in pista una vettura arancione velocissima che stampava record ad ogni giro. Era la nuova McLaren di Adrian Newey che, ormai orfana della storica livrea Marlboro, aveva tirato fuori il colore dato dal suo fondatore neozelandese.
Anche quell’anno, pur lottando contro un avversario più forte, Michael ci mise del suo e rese la vita difficile al campione finlandese, che qualche anno prima, a Estoril, mise in difficoltà sua maestà Ayrton Senna, e alla scuderia di Woking, che nel frattempo si era tinta di argento per il nuovo sponsor tabaccaio.

Arrivammo così al 1999, che sembrava davvero l’anno buono: la Ferrari era ormai al livello della McLaren e Michael, con il suo talento, riusciva a portare a casa piazzamenti e vittorie che lo rendevano il favorito al trionfo finale. Ma il fato ci mise lo zampino proprio in terra inglese, al primo giro del gran premio, nel peggior incidente della sua carriera, che gli costò una frattura della tibia. Eppure, quell’anno il pur modesto Eddie Irvine, con il corposo aiuto di due scudieri d’eccezione come Schumacher e Mika Salo, stava per compiere l’impresa tanto attesa, ma il talento del finlandese nettamente superiore prevalse.
E così torniamo al principio: quella mattina novembrina del 2000 era l’atto finale di una cavalcata entusiasmante, dove la scuderia di Maranello e il suo pilota si giocarono il mondiale alla pari, gran premio dopo gran premio, scrivendo pagine memorabili di automobilismo e arrivando a Suzuka per una volta in leggero vantaggio. Potevamo essere artefici del nostro destino.
Il giorno prima, durante le qualifiche, ogni ferrarista che si rispetti aveva perso dieci anni di vita nell’entusiasmante testa a testa tra il tedesco e il finlandese che lottarono tutta la sessione staccando tempi incredibili. Alla fine, Michael prevalse di 9 millesimi, roba da infarto, perché era troppo importante partire davanti l’indomani.
E così, dopo un pre-start vissuto in trance agonistica, eccoci alla partenza, trattenendo il fiato. Scatta bene Schumacher, che subito chiude Hakkinen con una manovra al limite del regolamento, ma il finlandese la spunta e passa. Lanciai immediatamente qualche bestemmia in dialetto ostrogoto e pensai: “Adesso spengo, perché tanto siamo fregati anche quest’anno, ce ne siamo mangiati un altro”. Comunque sia, rimasi incollato allo schermo, ma al primo rifornimento arrivò un’altra delusione, perché le posizioni non cambiarono. Si andava così verso il secondo rifornimento, ma le speranze erano davvero poche.
Quando arrivò un inaspettato aiuto dal cielo: una leggera pioggerellina rese la pista scivolosa ed esaltò le doti del bicampione tedesco, che prima ridusse il distacco e poi passò davanti dopo il secondo rifornimento. Un sorpasso di puro talento. Quando le condizioni si fanno difficili, la stoffa del campione emerge: una volta al comando, Schumacher controllò agevolmente il ritorno dell’avversario e vinse!

In quel momento non gioii, perché ero impietrito. Mi sembrava così irreale da non apparire vero: dieci anni di sofferenze non potevano essere finiti. Possibile che questo pilota così antipatico fosse riuscito, con la sua immensa classe, dove tutti avevano fallito? Possibile che noi italiani fossimo riusciti nella grande impresa di zittire la moglie di Hakkinen e ricacciarla finalmente nel retro box?
Ebbene sì, era tutto vero. A distanza di oltre 20 anni, nel giorno in cui si celebra il trentesimo anniversario dal suo primo titolo in Benetton, non riesco a guardare indietro senza provare emozioni contrastanti, tra gioia e incredulità. Felice di aver potuto vivere di persona il capolavoro di questo grande campione che ha riscritto la storia della F1 usando una penna rossa…
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP, F1