Cari lettori, appassionati, tifosi e masochisti vari,
È giunto il momento di rivelarvi un segreto che l’industria del giornalismo sportivo italiano custodisce gelosamente: non dovete leggere gli articoli. Mai. Fermatevi al titolo. Scrollate oltre. Passate alla prossima anteprima su X. Il titolo è tutto ciò che vi serve, tutto ciò che vi è stato promesso, e soprattutto tutto ciò in cui il giornalista ha riversato le sue energie creative residue prima del quinto caffè della mattina.
L’arte sublime del titolista
Viviamo in un’epoca meravigliosa in cui il giornalismo di Formula 1 ha finalmente capito la sua vera missione: non informare, non analizzare, ma sopravvivere. E come si sopravvive nel 2025? Con i click. Gloriosi, salvifici, numerabili click.
Il titolo è l’unica cosa che appare nell’anteprima social. È lì che si gioca la partita. È lì che il povero giornalista, stretto tra la fame di visualizzazioni, la necessità di sembrare autorevole, il desiderio di dire la verità e la tentazione irresistibile di sparare la cazzata cosmica che tutti vogliono leggere, compie il suo atto di equilibrismo.
“FERRARI: IL MISSILE È PRONTO, DOMINIO ASSICURATO” – pubblicato martedì, quando non si corre.
“FERRARI NEL CAOS: STAGIONE FINITA, BINOTTO/VASSEUR/[inserire nome a caso] DEVE ANDARSENE” – pubblicato domenica sera, dopo una gara sottotono.
Il contenuto: un viaggio nell’inutile
Ah, ma voi siete curiosi. Volete cliccare. Volete leggere. Poveri illusi. Cosa troverete sotto quel titolo altisonante? Permettetemi di risparmiarvi la fatica:
- 450 parole di giri concentrici che non dicono nulla;
- Tre virgolettati di Binotto del 2020 ancora riciclati;
- Un “secondo rumors” che significa “l’ha detto mio cugino al bar”;
- Una conclusione che contraddice il titolo (“…ma è ancora tutto da vedere”);
- Zero coerenza con l’articolo scritto 48 ore prima dallo stesso autore.
Il contenuto è diventato un esercizio di sofismo, un riempitivo necessario per dare l’illusione dell’approfondimento. Ma la verità? La verità era nel titolo. Se il titolo diceva che Leclerc è un fenomeno, allora Leclerc È un fenomeno. Punto. Non cercate analisi telemetriche nei 6 paragrafi successivi, troverete solo aggettivi casuali e un video YouTube embedded.
Le opinioni: quelle sì che contano (più dei fatti)
Dati? Tempi sul giro? Analisi aerodinamiche? Roba da nerd. Il vero giornalismo di F1 si fa con le sensazioni, con il fiuto, con quella cosa indefinibile che si chiama “esperienza” e che ti permette di dire tutto e il contrario di tutto nell’arco di un weekend.
I numeri sono freddi, le opinioni sono calde. I fatti sono noiosi, il tifo è passionale. E il pubblico vuole passione, vuole sentirsi rappresentato nel suo delirio. Vuole leggere che la Ferrari è il male assoluto quando perde, e la scuderia del secolo quando vince (o meglio ancora, quando potrebbe vincere).
La regola aurea dell’oscillazione emotiva
Ecco il ciclo perfetto del giornalismo F1 italiano:
- Lunedì-Mercoledì (non si corre): Ottimismo cosmico. La Ferrari ha trovato la soluzione. I nuovi aggiornamenti sono rivoluzionari. Leclerc ha fatto un tempo pazzesco al simulatore. McLaren trema.
- Giovedì-Venerdì (prove libere): Cauto ottimismo. Sì, siamo terzi ma è solo FP1. Aspettiamo. Red Bull ha mostrato le sue carte, noi no.
- Sabato sera (dopo qualifiche mediocri): DISASTRO. Tutto da rifare. La macchina è un bidone. Licenziare tutti. Il Mondiale è finito. Tifosi delusi e incazzati. Articolo da 600 parole scritto in 8 minuti che cavalca la rabbia collettiva.
- Domenica sera (dopo gara discreta): Vabbè, ma in fondo è andata meglio del previsto. Ci sono margini. Il prossimo GP è su un circuito favorevole. La speranza è l’ultima a morire.
Ripetere ogni race week per 24 gare.
Il consiglio finale (serio)
Quindi, cari lettori, ecco il mio consiglio definitivo: quando vedete un titolo sulla F1, leggetelo. Ridete. Magari fateci un meme. Ma non cliccate. Non cercate coerenza dove non può esistere. Non pretendete analisi dove c’è solo bisogno di produrre contenuto.
Il giornalismo di Formula 1 in Italia è diventato un grande teatro dell’assurdo dove tutti recitano la stessa parte: fingere che importi qualcosa oltre al click.
E il bello sapete qual è? Che probabilmente anche questo articolo lo avete letto solo fino al titolo.
E avete fatto benissimo.
P.S. Se siete arrivati fino a qui, congratulazioni: siete parte del problema. Ma almeno ora lo sapete.