Da qualche tempo, nell’ambiente Ferrari – e ancor di più nel chiacchiericcio social – si è fatta largo un’idea affascinante quanto discutibile: Charles Leclerc sarebbe il perno tecnico attorno a cui dovrebbe ruotare l’intero progetto della Rossa. Secondo questa visione, ogni sviluppo, assetto e filosofia progettuale dovrebbe riflettere il suo stile di guida. Ma davvero un team di Formula 1 può, e deve, costruire una monoposto su misura per un solo pilota?
E soprattutto: Leclerc ha davvero le spalle, l’esperienza e la visione per essere quel tipo di guida tecnica?
In un momento storico in cui Hamilton è appena approdato a Maranello, e la SF-25 stenta a brillare, è più facile dare colpe o meriti ai volti noti che affrontare la complessità di un progetto tecnico. Ma per capire dove sta la verità, serve mettere da parte la narrativa e tornare ai fatti. E ai dati.
Quanto conta davvero il feedback di un pilota nello sviluppo di una monoposto?
Nel mondo della Formula 1, il feedback del pilota è cruciale, ma non è, e non sarà mai, l’unico elemento determinante per lo sviluppo di una vettura vincente. Attribuire a un singolo pilota la capacità di indirizzare un progetto tecnico complesso come una monoposto di F1 è una semplificazione pericolosa, che alimenta una narrativa romantica quanto fuorviante.
Certo, la macchina deve adattarsi allo stile di guida del pilota per poter estrarre il massimo potenziale. Ma la domanda da porsi è un’altra: lo stile di guida è davvero la chiave di volta per costruire un’auto dominante?
Stili di guida e prestazioni: il mito da sfatare
Prendiamo due esempi opposti e devastanti: Lewis Hamilton e Sebastian Vettel. Nessuno dei due ha avuto bisogno di una macchina costruita “su misura” fin nei dettagli per diventare campioni del mondo. Entrambi, nel corso della loro carriera, hanno dimostrato la capacità di adattarsi a monoposto differenti, di interpretare progetti tecnici anche lontani dal loro “gusto” personale e portarli al limite.
Quando si parla di Hamilton, si dimentica troppo facilmente che il suo contributo tecnico in Mercedes è stato enorme, specie nei primi anni dell’era ibrida. E lo stesso discorso vale per Vettel, che ha costruito con Red Bull una serie di macchine letali non perché cucite sul suo stile di guida, ma perché frutto di un lavoro di squadra, dati, simulazioni e direzione tecnica chiara.
Allora perché mai oggi si pretende che la Ferrari costruisca tutto attorno a Leclerc?
Davvero Leclerc è l’ingegnere in tuta rossa?
L’immagine che viene venduta è quella di un Charles Leclerc capace di dettare la linea tecnica, di interpretare la macchina, correggerla, migliorarla. Ma siamo davvero certi che sia questo il suo ruolo? O che debba esserlo?
Oggi, in Formula 1, la figura del pilota “meccanico” non esiste più. Non ci sono più i Lauda, i Prost o gli Schumacher che smontavano il retrotreno e parlavano con i tecnici fino a notte fonda. I dati, i simulatori, i banchi dinamici e i software predittivi sono diventati i veri architetti delle prestazioni. Il pilota fornisce impressioni soggettive, poi validate (o smentite) dall’analisi oggettiva. E nessun pilota, nemmeno Verstappen, prende decisioni strategiche da solo.
Quindi no, non è Leclerc, come non lo è Hamilton, né lo è stato Vettel, a definire come deve essere fatta la macchina.
La SF-25 è colpa di Hamilton? Una narrativa tossica
C’è chi insinua che la Ferrari SF-25 non funzioni perché si sta lavorando sulle preferenze di Hamilton, trattandolo quasi come una sorta di sabotatore interno. Una lettura surreale e priva di basi, che dimentica quanto siano lunghi e stratificati i processi di sviluppo tecnico in F1: il progetto 677 ha preso forma ben prima che Lewis mettesse piede a Maranello.
La SF-25 è il prodotto di una filosofia tecnica, con radici che affondano in anni di errori, di approcci conservativi, di mancanza di coerenza progettuale. Hamilton non ha progettato nulla: sta iniziando ora a lavorare con gli ingegneri, e i risultati (se arriveranno) si vedranno dal 2026 in poi.
Questa narrazione non nasce da un’analisi tecnica, ma da una forma di idolatria per Leclerc e rancore malcelato verso “l’intruso” Hamilton. Un mix velenoso che alimenta divisioni interne e offusca il vero obiettivo: tornare a vincere.
Perché i dati contano meno della narrazione?
Viviamo in un’epoca dove la narrativa vale più dei dati. È più facile dire che “la Ferrari va male perché si ascolta Hamilton” che analizzare i motivi per cui la SF-25 è debole nelle curve lente rispetto a Red Bull e McLaren.
Il problema è che la verità è noiosa, mentre la narrativa emoziona. E allora si costruiscono racconti, si inventano faide, si decontestualizzano frasi, tutto pur di far combaciare la realtà con il proprio pregiudizio.
Serve meno tifoseria e più lucidità
Charles Leclerc è un grande pilota, uno dei più veloci in qualifica, tecnicamente preparato e determinato. Ma non è un direttore tecnico né un progettista, e pretendere che Ferrari ruoti attorno alle sue sensazioni soggettive è un limite, non un merito.
Hamilton è arrivato per dare know-how, esperienza, visione. E chiunque voglia davvero il bene della Ferrari, oggi dovrebbe sperare che questi due imparino a lavorare insieme, senza che ogni scelta venga letta con il filtro della rivalità.
Ferrari non ha bisogno di essere “la squadra di Leclerc” o “la squadra di Hamilton”. Ha bisogno di tornare a essere una squadra vincente.