C’è un curioso paradosso a Maranello. John Elkann, dopo l’ennesima delusione in pista, ha deciso di puntare il dito contro i piloti, affermando che questi pensino più a se stessi che al bene del team. Un j’accuse pesante, carico di implicazioni, che arriva in un momento delicato, con la Ferrari smarrita tra errori tecnici, mancanza di risultati e pure quella sfortuna che guarnisce un cocktail amaro.
Ma a ben guardare, la vera contraddizione non è in pista: è al vertice. Perché se davvero c’è qualcuno che ha voluto spostare il baricentro della Ferrari dall’ingegneria all’immagine, dal progetto sportivo alla narrazione, dal blasone al marketing, quello è proprio Elkann.
È stato lui a volere Lewis Hamilton, non è un mistero. È stato lui a spingere per l’arrivo del sette volte campione del mondo, con la promessa di un rilancio tecnico, ma anche – e forse soprattutto – di un rilancio d’immagine. Hamilton, il volto più riconoscibile della F1 contemporanea, rappresentava la fusione perfetta tra vittorie, glamour e appeal commerciale. Portarlo in Ferrari significava associare il Cavallino Rampante a un’icona globale, capace di attirare sponsor, visibilità, un pubblico nuovo. Una mossa da stratega del brand, più che da uomo di corse.

Ferrari vittima delle sue stesse strategie
E allora viene da chiedersi: di cosa si lamenta oggi Elkann? Di avere esattamente ciò che ha voluto? Perché accusare Hamilton – alcuni osservatori ritengono che le parole del presidente fossero rivolte a lui e non a Leclerc – di individualismo rischia di sembrare grottesco e sicuramente illogico. Lewis non è arrivato a Maranello per cantare nel coro: è stato chiamato per guidare una rinascita, per incarnare la Ferrari vincente che Elkann aveva sognato nei board meeting di Maranello, Torino e Londra. Ma per vincere servono le basi, non i poster. Lewis ha deluso? Sì. La Ferrari ancora di più. Un fatto.
Ferrari: il problema si chiama SF-25
Il problema, infatti, non siede nell’abitacolo. La SF-25 è una macchina incompiuta, nata da un progetto tecnico senza coraggio, prigioniero della continuità. Doveva rappresentare la rottura, la risposta rossa a un dominio McLaren sempre più schiacciante. Invece è diventata un compromesso, un aggiornamento travestito da rivoluzione.
Gli ingegneri hanno fatto il possibile, ma la direzione generale ha imposto prudenza, cautela, equilibrio: tre parole che in Formula 1 non portano mai a nulla di grande. Una macchina che non è migliorata di un millimetro nonostante qualche fondo rivisto e la sospensione posteriore spacciata per miracolosa da certa stampa accolita e poco analitica. Gli stessi osservatori che oggi puntano il dito, quelli che mesi fa facevano invece turbinare le lingue. E non solo per discettare…
Elkann preferisce parlare di spirito di squadra, di unione, di sacrificio. Parole altisonanti, ma vuote se pronunciate da chi, di fatto, non protegge la propria squadra. Perché un presidente che davvero crede nel gruppo non attacca pubblicamente i propri piloti. Li difende, li copre, li mette in condizione di lavorare. Il problema è che a Maranello manca proprio questa cultura della protezione. Ogni volta che le cose non vanno, si cerca un capro espiatorio: ieri era Binotto, oggi sono Leclerc e Hamilton. Domani, chissà.
La verità è che la Ferrari continua a soffrire di una crisi d’identità. Si proclama “team unito”, ma è una squadra in cui i ruoli si confondono e le responsabilità si diluiscono. Elkann, invece di chiedere ai conducenti di pensare meno a se stessi, dovrebbe guardare a chi ha progettato e approvato la SF-25. Dovrebbe interrogarsi sulle scelte tecniche che hanno portato a una vettura incapace di reggere il ritmo dei migliori e sulle strategie che si ripetono stanche, prevedibili, inefficaci.

Hamilton, da parte sua, non ha bisogno di essere difeso: la sua carriera parla da sola. Le sue evidenti difficoltà non sono sottaciute dallo stesso che a più riprese ha fatto ammenda e mea culpa. Ma è emblematico che proprio lui, l’uomo scelto per “rivoluzionare la Ferrari”, si ritrovi oggi nel mirino del suo presidente. Come se il fallimento fosse personale, non collettivo. Come se i problemi strutturali di Maranello potessero essere risolti da un solo uomo, per quanto straordinario.
No, il vero problema non è il pilota o il singolo ingegnere. È la direzione. È la mancanza di una visione sportiva chiara, di una leadership che ispiri e protegga. Finché Elkann continuerà a comportarsi da osservatore esterno, più attento all’immagine che alla sostanza, la Ferrari resterà prigioniera del proprio mito. Bellissima da guardare, inarrivabile nei sogni, ma impotente in pista. Perché in fondo, se c’è qualcuno che pensa più a se stesso che al team, non sta certo seduto nell’abitacolo…
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP
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