F1 – L’ultimo Gran Premio del Brasile, a Interlagos, ha visto come protagonista Max Verstappen, ormai prossimo al suo quarto titolo consecutivo. Tuttavia, è stata la pioggia il grande catalizzatore visto che è andata a monopolizzare la domenica, con qualifiche e gara sul bagnato.
Verso metà gara, con il peggiorare delle condizioni meteorologiche, alcuni piloti hanno chiesto a gran voce tramite i team radio di interrompere la competizione. La direzione gara, presieduta da Niels Wittich, ha prima autorizzato l’ingresso della Safety Car e, dopo un paio di giri, ha esposto la bandiera rossa.

Alcuni piloti, tra cui il giapponese Yuki Tsunoda della VISA CashApp Racing Bulls, avevano appena montato le gomme “full wet“, progettate appositamente per condizioni simili ma raramente utilizzate a causa della scarsa visibilità che creano. Questi pneumatici sollevano grandi quantità d’acqua, riducendo quasi a zero la visibilità dei piloti. Tsunoda, scontento per la decisione del direttore di gara che lo aveva penalizzato, è stato rincuorato dal suo team principal, il francese Laurent Mekies.
Facciamo un passo indietro nella storia: fin dai suoi albori, il pilota di F1 è stato, per antonomasia, colui che, con estremo coraggio, sfidava la morte a tutta velocità, guidando vetture insicure su circuiti con misure di sicurezza minime.
Con il passare degli anni, i piloti hanno compreso che non si poteva rischiare la vita per fare ciò che si amava e hanno lottato per una maggiore sicurezza; battaglie vinte anche dopo il tragico Gran Premio di San Marino del 1994. Venti anni dopo, i tragici eventi di Imola, la F1 ha vissuto un nuovo incubo con l’incidente di Jules Bianchi nelle fasi finali del Gran Premio del Giappone, sotto una pioggia torrenziale. Da allora, il rapporto tra la F1 e la pioggia è cambiato drasticamente.
I piloti di una volta, o almeno alcuni di loro, erano quasi dipendenti dall’adrenalina, andando a cercare sfide anche al di fuori delle gare. Tra tutti, il compianto Gilles Villeneuve era famoso per la sua spericolatezza sia in pista sia fuori, con gare improvvisate in autostrada o sfide contro jet, a bordo di una monoposto senza alettoni.
Anche Michael Schumacher, nel tempo libero, si dedicava al paracadutismo o ad altri sport adrenalinici. Kimi Raikkonen ha partecipato a gare di rally, così come Robert Kubica, che, poco dopo aver firmato con la Renault, ebbe un grave incidente nella categoria, compromettendo la sua carriera in Formula 1. Più di recente, Lewis Hamilton, pilota che incarna il ruolo di “star” a livello degli attori di Hollywood, si è cimentato nel paracadutismo e nel surf, sport tra i più estremi.

Ognuno di noi, nel tempo libero, può dedicarsi anche ad attività pericolose. Ma lanciarsi da un aereo è davvero più sicuro che guidare una monoposto di F1 sul bagnato solo perché la visibilità è ridotta da una scia d’acqua?
Nella storia della classe regina del motorsport, ci sono state gare sul bagnato entrate nella leggenda, in cui i piloti hanno dato il massimo pur con problemi di visibilità, compiendo imprese straordinarie e delle quali ancora si parla. Se oggi i piloti preferiscono rischiare la vita fuori dalla Formula 1, un campionato che ha fatto enormi passi avanti nella sicurezza, c’è un evidente problema di fondo con ciò che amano.
Il rischio è parte integrante del mestiere che hanno scelto. Provocatoriamente, verrebbe da dire che o lo accettano o si dedicano ad altro, magari al paracadutismo o all’alpinismo, che, secondo loro, sono meno pericolosi di correre a oltre 300 km/h su pista bagnata o asciutta. Prendete questo scritto come uno spunto di riflessione, non come un invito a rendere pericolose le gare della Formula Uno.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP, FIA, F1