Jacques Villeneuve ha scelto il podcast High Performance per lanciare una lettura tanto netta quanto controversa delle difficoltà di Lewis Hamilton in Ferrari. Una diagnosi che il canadese fa partire da lontano – quasi più psicologica che tecnica – e che chiama in causa il peso degli anni trascorsi alla guida di monoposto ritenute dominanti. Anche quando non lo erano…
“Molti campionati li ha vinti contro il compagno di squadra e non c’è stata una vera battaglia. L’unica sfida che ha affrontato è stata contro Nico Rosberg e l’ha persa. Ora alla Ferrari deve tornare in modalità combattimento, ma sembra che si sia abituato agli anni facili. Rimettere in moto un diesel è difficile se si rallenta un po’. Ma una volta che pensi di essere intoccabile, rallenti“.
Parole dure, che Villeneuve ha poi chiarito entrando più nel dettaglio della sua teoria. “I suoi mondiali non sono stati difficili da vincere. La Mercedes era così più avanti che ogni volta che le cose si facevano più difficili, le bastava aumentare la potenza del motore. Era tutto lì a portata di mano. A quel punto solo una Mercedes avrebbe potuto vincere, praticamente con qualsiasi pilota in griglia“. Altra considerazione deterministica che non fotografa per bene la carriera del pilota si Stevenage.

Hamilton spiazzato dal suo stesso dominio?
Il concetto espresso dal campione del mondo 1997 è chiaro: secondo Villeneuve, Hamilton avrebbe perso nel tempo la capacità di valutare correttamente il contesto tecnico e competitivo, perché per anni non ne ha avuto reale bisogno. Quando la macchina è dominante, il riferimento si sposta. Il limite non è più quello assoluto della monoposto, ma quello relativo del compagno di squadra. Il rischio, in questo scenario, è che la percezione della difficoltà venga distorta. Tutto appare sotto controllo, tutto sembra reversibile, ogni problema sembra risolvibile con una leva tecnica esterna al pilota.
Trasportato in Ferrari, questo schema si romperebbe di colpo nelle ricostruzione del canadese. Niente più margine strutturale, niente più rete di sicurezza tecnica, niente più superiorità sistemica. Serve adattamento, serve lettura fine del contesto, serve soprattutto la capacità di convivere con un mezzo imperfetto. Ed è qui che, secondo Villeneuve, Hamilton starebbe pagando il conto di anni “facili”.

Villeneuve vittima della sua teoria?
Una teoria suggestiva, ma che presenta una crepa evidente. Anzi, una crepa che porta direttamente alla carriera di chi la formula. Jacques Villeneuve ha vinto il Mondiale nel 1997 con una Williams dominante, figlia diretta di uno dei cicli tecnici più schiaccianti della storia della categoria. Una monoposto che, anche dopo l’addio di Adrian Newey, restava superiore alla concorrenza, anche grazie a un motore Renault inavvicinabile. Una macchina che permetteva errori, che consentiva gestione, che proteggeva il pilota. E cosa è successo a Villeneuve una volta perso quel contesto?
Senza la Williams, la carriera del canadese si è progressivamente spenta. La scommessa BAR, le stagioni anonime, l’assenza totale di risultati di vertice. Nessuna rinascita, nessuna capacità di trascinare progetti mediocri, nessuna dimostrazione di quel “modalità combattimento” che oggi pretende da Hamilton. Se la teoria è che le monoposto dominanti annebbino la percezione del reale, Villeneuve ne è stato uno dei primi esempi.
È qui che il discorso assume i contorni della proiezione. Villeneuve sembra lanciare su Hamilton una dinamica che appartiene, almeno in parte, alla propria esperienza. L’idea che il talento venga deformato dalla superiorità tecnica. L’idea che, una volta persa quella superiorità, il pilota si scopra improvvisamente vulnerabile. Ma usare Hamilton come caso di studio universale rischia di essere un’operazione riduttiva.
Hamilton ha vinto titoli in epoche diverse, con regolamenti diversi, contro compagni di squadra di altissimo livello. Ha attraversato cicli tecnici complessi, ha convissuto con vetture difficili, ha saputo adattarsi più volte. Le difficoltà in Ferrari esistono, sono evidenti e meritano analisi. Ma ridurle a una presunta “pigrizia competitiva” indotta dagli anni Mercedes è una lettura che semplifica e, forse, assolve chi la propone.
In definitiva, la teoria di Villeneuve affascina perché è lineare, ma convince poco perché è selettiva. Funziona se applicata agli altri, molto meno se applicata a se stessi. E in Formula 1, come nella psicologia, il confine tra analisi e proiezione è spesso più sottile di quanto sembri. E non me ne voglia il buon Jacques se mi ricorda tanto quei “one shot singer” che si spengono dopo una sol hit di successo…
Crediti foto: F1, Mercedes-AMG Petronas F1 Team, Scuderia Ferrari HP
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