Non lo si afferma per spirito patriottico, bensì per un dato di fatto difficilmente controvertibile: la Ferrari è un modo a sé. Maranello, con la sua liturgica solennità, è luogo che non si attraversa: ti attraversa. Entrare in quell’ambiente, maneggiarlo, comprenderlo e domarlo non è semplice. E anche dei pluri-campioni possono esserne fagocitati.
Karun Chandhok, parlando di Lewis Hamilton, ha centrato il punto usando un paragone che in rosso fa sempre rumore: Alain Prost. Non un nome qualunque, non un precedente banale. Un campione del mondo che in Ferrari ci ha vinto avvicinandosi al bottino grosso, sì, ma che non ha mai smesso di sentirsi, intimamente, un corpo estraneo.
Quando Chandhok, a The F1 Show, dice che Lewis Hamilton ha probabilmente sottovalutato il cambiamento culturale, non sta parlando di adattamento tecnico, di procedure, di metodi di lavoro. Sta parlando di identità. Ferrari non è un team: è un ecosistema emotivo, storico, politico. È un ambiente che pretende adesione totale, non semplice professionalità. E se non ti cali fino in fondo in quella mentalità, prima o poi paghi il conto.

Il parallelo con Prost è illuminante proprio per questo. Il Professore arrivava da squadre britanniche, con una cultura razionale, lineare, quasi asettica. In Ferrari vinse, ma non si sentì mai davvero a casa. Non perché mancasse il rispetto o la competenza, ma perché il modo di intendere il lavoro, la pressione, il rapporto con l’esterno era radicalmente diverso.
Ferrari ti chiede di essere parte del racconto, non solo dell’organigramma. E infatti bastò una macchina sbagliata per suscitare le ire del pilota transalpino che pagò per la sua irriverenza. Perché paragonare una Rossa a un camion è un’onta che i vertici della squadra non potettero tollerare anche se quella del francese era una verità oggettiva.
Hamilton è arrivato a Maranello dopo aver costruito in Mercedes qualcosa di ancora più profondo: un rapporto simbiotico, quasi familiare. Un sistema che lo proteggeva, lo comprendeva, lo anticipava. Uscirne non significa solo cambiare box, ma rinunciare a una comfort zone costruita in oltre un decennio. Ed è qui che Chandhok coglie un passaggio chiave: quel legame così forte, paradossalmente, può essere diventato un freno. Per funzionare in Ferrari devi prima “disimparare” ciò che ti ha reso grande altrove.
Il 2025, in questa chiave, non va letto come un anno fallimentare. Va inteso come una palestra. Dura, scomoda, spesso frustrante. Un mondiale in cui Hamilton ha dovuto fare i conti non solo con una macchina imperfetta (le etichette da adoperare sarebbero ben altre e sicuramente più severe di “camion”), ma con un modo diverso di vivere la Formula 1. La pressione mediatica amplificata, il peso simbolico di ogni parola, di ogni gesto, di ogni silenzio. In Ferrari non sei mai solo un pilota: sei un segnale super esposto.

Le palestre, però, servono solo se gli insegnamenti vengono assimilati. Il punto ora è questo. Il 2026 non sarà un altro anno di rodaggio, né potrà esserlo. Il tempo, semplicemente, non lo consente. L’età avanza, le energie non sono infinite e la Formula 1 non aspetta nessuno, nemmeno Lewis Hamilton. La rivoluzione regolamentare offrirà un’opportunità, forse l’ultima. Andrà aggredita con ferocia, ma soprattutto con lucidità e con una piena immersione nel mondo Ferrari.
Ora o mai più, davvero. Perché in rosso non basta essere il più grande: bisogna elevarsi alla grandezza della Ferrari. E non è una sfida tecnica. È una sfida culturale, identitaria, quasi esistenziale. Prost lo aveva capito a sue spese, tanto che andò a cercare fortuna in Williams ottenendo un altro titolo. Hamilton, che di tempo ne ha poco, sta ancora imparando. Il 2026 dirà se quella lezione sarà stata sufficiente.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP
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