Ci sono momenti, nella storia della Ferrari, in cui l’ambiente esterno diventa lo specchio più fedele della situazione interna. E le reazioni degli ultimi giorni alle parole di John Elkann non raccontano semplicemente un errore evidente di comunicazione, ma il fallimento di una postura dirigenziale che non è sostenibile agli occhi dei professionisti del paddock. Non più. Non quando a prendere posizione sono Gian Carlo Minardi e Günther Steiner, due figure che conoscono le squadre dall’interno e che capiscono alla perfezione cosa può rompere un gruppo e cosa può salvarlo.

Minardi, che in F1 ha costruito esperienze, piloti e culture sportive, è stato diretto come raramente accade in un mondo in cui difficilmente ci si sbilancia: “Elkann? Non è così che si gestisce una squadra. Un presidente dovrebbe essere un buon padre di famiglia. Le critiche dovrebbero essere interne, non esterne. Il tempo di qualifica di Charles (P3) è stato ottenuto da lui, non dalla macchina“. E in questa frase c’è l’essenza del problema Ferrari: un presidente che parla come un commentatore qualunque, che punta il dito verso i piloti nel momento peggiore, senza considerare dinamiche, sensibilità e responsabilità del proferito.
Perché di responsabilità si tratta. Non si può attaccare Leclerc o Hamilton accusandoli di pensare più a se stessi che al team, quando la casa madre sta attraversando una delle fasi più complesse degli ultimi anni – sportivamente parlando – e quando serve unità, non tensioni generate dal vertice. Minardi lo sa. Lo dice senza filtri. E il fatto che debba dirlo lui, dall’esterno, è già un sintomo allarmante.
Poi arriva Steiner, che di diplomazia non ha mai vissuto, e che proprio per questo è una cartina di tornasole ancora più nitida. Lo dice con un tono quasi incredulo: “Charles, quest’uomo mette tutto il cuore e l’anima in quello che fa. Cosa si può volere di più da Charles? Trovo piuttosto strano che qualcuno nella posizione più alta possa fare un commento del genere…“. In queste parole non c’è solo difesa di Leclerc, c’è una denuncia di leadership. Una leadership che non capisce il ruolo che ricopre. Una leadership che scambia il paddock per un CDA, la pressione sportiva per un bilancio trimestrale.

Steiner insiste, affonda il colpo e tocca il nervo scoperto: “Elkann non deve chiedere a nessuno di farlo o di non farlo. Ma se non hai niente di positivo da dire, non dire nulla, in questa posizione. Non puoi paragonare il WEC alla F1“. È uno schiaffo durissimo, e non solo concettuale. È la certificazione che Elkann sta parlando un linguaggio che non appartiene alla massima serie. Perché non si possono usare categorie di altri mondi tecnici per giudicare performance che vivono nel millimetro, nella gestione psicologica, nel contesto della lotta al limite.
E poi la frase più forte, quella che nessun dirigente vorrebbe sentirsi rivolgere: “E poi, chi ha scelto i piloti? A volte bisogna guardarsi allo specchio. Sono sicuro che abbia accettato di ingaggiare Lewis, questo è quello che ho capito. <<Ho criticato questo ragazzo, ma sono io che l’ho scelto, forse ho commesso un errore>>“. Qui Steiner non sta solo criticando Elkann. Sta svelando una contraddizione di fondo: il presidente parla come se fosse spettatore di decisioni altrui, quando invece quelle scelte portano la sua firma.
Infine mette il sigillo, quasi ironico, sulla vicenda: “Non vedo cosa ci fosse di sbagliato nei commenti di Hamilton e Leclerc. Non capisco. Ma forse era un po’ emozionato quando ha detto che entrambe le vetture si erano ritirate in Brasile, forse era un po’ arrabbiato“. Questo è il ritratto finale di Elkann: un presidente che reagisce “a caldo“, che si lascia trascinare dall’emotività del momento, che commenta più da tifoso irritato che da guida stabile di una squadra che deve affrontare la più grande rivoluzione regolamentare del decennio.
Ed è qui che risiede il punto più drammatico: Ferrari non può permettersi un presidente emotivo. Non può permettersi un presidente che parla senza strategia. Non può permettersi un presidente che non comprende quanto ogni sua parola diventi automaticamente una linea politica interna. Minardi e Steiner non stanno attaccando Elkann per sport. Stanno lanciando un avvertimento.

E l’avvertimento è semplice: la Ferrari ha bisogno di un presidente che sappia fare il presidente. Non di un commentatore. Non di un giudice severo a giorni alterni. Ma di una figura che protegga il gruppo, che dia una direzione, che conosca la differenza tra critica costruttiva e instabilità autoindotta.
Oggi questa figura non c’è. E se a dirlo sono i veterani del paddock, allora è chiaro che la crepa non è più solo interna. È visibile, evidente, e rischia di diventare strutturale proprio nel momento peggiore possibile. Il futuro della Ferrari, prima ancora che nella stagione 2026, si gioca qui: nel capire che la leadership, in Formula 1, è una competenza tecnica tanto quanto il carico aerodinamico. E che un presidente può far vincere o far perdere una squadra senza mai mettere piede in pista.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP, Minardi, Haas F1
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