C’è un claim che per anni ha risuonato tra i tifosi del Napoli, un invito riservato ad Aurelio De Laurentiis nei momenti di maggior tensione: “Vendi e vattene”. Una frase ingiusta, perché l’uomo del cinema ha comunque regalato due scudetti (e qualche coppa di contorno) e riportato il club azzurro nell’élite del calcio europeo. Quell’incipit ormai fuori moda all’ombra del Vesuvio, oggi, sembra calzare a pennello per qualcun altro: John Elkann.
Il presidente di Exor, l’uomo che tiene in mano anche il destino della Ferrari, continua a dare la sensazione di essere un po’ troppo algido verso ciò che rappresenta Maranello. Non un colpo d’amore, non un gesto di passione, non un segnale di quella follia agonistica che ha reso immortali i suoi predecessori. La Ferrari, per il presidente, appare più un asset da bilancio che una missione sportiva. E questo, in un mondo dove la passione è carburante, è il peccato capitale che gli viene ascritto.

Perché la Ferrari non si guida con Excel. Non si accende con i grafici dei ricavi o con le slide delle sorridenti (agli azionisti) trimestrali di cassa, ma con il cuore di chi capisce che ogni millesimo perso è un insulto alla leggenda. John Elkann è sempre apparso freddo, distante, quasi spaventato dal clamore del Cavallino che ultimamente non riesce più a impennare. Come se vincere fosse una conseguenza automatica del marchio, non il risultato di un’ossessione.
E invece la Formula 1 è ancora un’arena per visionari, per chi brucia dentro, per chi soffre e sogna insieme. Senza quella fiamma, restano solo le conferenze stampa e i piani industriali. Elkann sembra amministrare la Ferrari come una holding qualsiasi (lo fa in maniera impeccabile osservando gli indicatori fiscali), dimenticando che questo nome – Ferrari – non è una sigla da azionariato, ma una promessa: correre per vincere, sempre, anche quando tutto sembra impossibile.
Oggi la Rossa è impantanata in un limbo tecnico e gestionale. I rivali avanzano, Maranello si arrabatta, e il vertice resta in silenzio. Anche Benedetto Vigna, che del Cavallino dovrebbe essere il fantino, non offre segnali, se non le solite frasi di circostanza e gli slogan da report trimestrali. Ma la Ferrari non è una banca: è una fede. E se chi la guida la considera solo un istituto di credito – o qualcosa di simile – allora non potrà condurla alla gloria.
Ecco perché il grido “vendi e vattene”, pur nato in un altro mondo e per un’altra storia, oggi suona come un monito universale. Non basta possedere la Ferrari per capirla. Serve viverla, sentirla. È necessario empatizzare, somatizzare il dolore dei tifosi e trasformarlo in sofferenza propria. Perché senza passione e dolore, anche il Cavallino più nobile finisce per sembrare un semplice ronzino da tiro. Quel che è stato, ancora una volta, ieri a Singapore.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP
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