C’è una maledizione che aleggia su Maranello da decenni, un ciclo vizioso che si ripete inesorabilmente con la stessa sequenza di eventi. È il paradosso del tifo ferrarista: amare visceralmente il Cavallino Rampante ma finire sempre per tifare contro di esso quando le cose si mettono male.
L’eterno ritorno del disincanto
Il copione è sempre lo stesso, recitato da attori diversi ma con lo stesso finale amaro. Arriva il nuovo messia, quello che finalmente riporterà il mondiale a Maranello. I primi GP sono promettenti: vittorie, pole position, sorpassi da brividi. I tifosi tornano a sognare, le bandiere sventolano più fiere che mai. Poi, inevitabilmente, arriva la doccia fredda della realtà.
La macchina non è all’altezza delle aspettative. Le strategie sono discutibili. Gli errori del muretto si moltiplicano. E il pilota, quel campione che doveva fare la differenza, si ritrova a dover fare i conti con una monoposto che lo limita invece di esaltarlo. Le performance brillanti si alternano a weekend anonimi, non per colpa sua, ma per un pacchetto tecnico che non rende giustizia al suo talento.
La sindrome dell’abbandono
Ed ecco che inizia la fase più prevedibile del ciclo: i tifosi, stufi di vedere il loro idolo sprecato in una Ferrari inadeguata, cominciano a schierarsi dalla parte del pilota contro il team. “Vattene e vinci”, “Date una macchina a questo ragazzo”. Le parole si ripetono identiche, cambiano solo i protagonisti, ma il sentimento è sempre lo stesso.
Il pilota, a quel punto, ha due strade davanti a sé: rimanere a Maranello sperando in tempi migliori o cercare fortuna altrove. In entrambi i casi, una fetta consistente del tifo ferrarista lo segue. Quando Vettel è passato in Aston Martin, quanti tifosi Ferrari hanno iniziato a tifare per la macchina verde? Quando Alonso tornò in McLaren, quante bandiere del Cavallino sono finite nel cassetto?
Leclerc e Hamilton: l’ultima incarnazione del ciclo
Oggi tocca a Charles Leclerc vivere questo calvario. Il monegasco, talento cristallino e velocità pura, si ritrova “intrappolato” a Maranello con una SF-25 che ha spento persino l’entusiasmo di un sette volte campione del mondo come Lewis Hamilton. L’arrivo dell’inglese era stato salutato come l’inizio di una nuova era, l’esperienza che mancava per completare il puzzle Ferrari. Invece, anche lui è finito invischiato in questo circolo vizioso che sembra non avere fine.
Hamilton, che ha vinto tutto quello che c’era da vincere, si ritrova a combattere per punti invece che per vittorie. E i tifosi? Stanno già iniziando a mormorare, a dire che forse sarebbe stato meglio se fosse rimasto in Mercedes, che la Ferrari lo sta distruggendo proprio come ha fatto con tutti gli altri.
La profezia che si autoavvera
Il vero dramma è che questo ciclo si alimenta da solo. I tifosi Ferrari, delusi dalle prestazioni del team, finiscono per disinnamorarsi del Cavallino e trasferire le loro speranze sul pilota di turno. Ma quando anche altrove il pilota fallisce o appende il casco al chiodo, ecco che rispunta la domanda fatidica:
“Hai visto il nuovo pilota della Ferrari?”
E così ricomincia tutto daccapo. Nuove speranze, nuovi sogni, nuove delusioni. È successo con Vettel, con Alonso, con Alesi, con Massa, con tutti quelli che avrebbero dovuto restituire gloria al Cavallino e invece si sono ritrovati a fare i conti con una realtà più dura delle aspettative.
L’eccezione che conferma la regola
C’è stato uno, e soltanto uno, che è riuscito a spezzare questo maledetto ciclo: Michael Schumacher. Il tedesco non è mai finito invischiato in questa spirale di delusioni e abbandoni. Perché? Davvero c’è bisogno di spiegare perché? Cinque titoli mondiali consecutivi dal 2000 al 2004, 72 vittorie in rosso, un’era di dominio assoluto che ha fatto dimenticare vent’anni di digiuno iridato.
Schumacher non è stato solo un pilota Ferrari, è stato LA Ferrari. Non si è mai trovato nella condizione di dover scegliere tra fedeltà al team e ricerca del successo, perché il successo lo ha trovato eccome. E i tifosi non hanno mai dovuto schierarsi dalla sua parte contro Maranello, perché Maranello vinceva con lui.
L’amore impossibile
Ma Schumacher è l’eccezione che conferma la regola. Forse è questo il destino del tifo ferrarista post-Schumacher: amare un’idea più che una realtà, inseguire un sogno che si materializza solo a sprazzi. La Ferrari non è solo un team di Formula 1, è un mito, un simbolo, un pezzo di storia italiana. E i miti, per definizione, sono irraggiungibili.
Ogni nuovo pilota che arriva a Maranello porta con sé la speranza di spezzare questa maledizione. Ma la storia insegna che il ciclo continuerà, perché fa parte del DNA di questo sport e di questa tifoseria. Amare la Ferrari significa accettare di soffrire, di sperare, di illudersi e di ricominciare a sognare.
Leclerc e Hamilton sono solo gli ultimi protagonisti di una storia che si ripete da decenni. Domani toccherà ad altri, dopodomani ad altri ancora. Il Cavallino continuerà a galoppare, ma non sempre nella direzione giusta. E i suoi tifosi continueranno ad amarlo, odiarlo e a seguire altrove i propri idoli del momento, in un eterno gioco di attrazione e repulsione che sembra non avere fine.
Crediti foto: Formulacritica
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