C’è qualcosa di profondamente romantico – e un pizzico di tragicamente comico – nel vedere Felipe Massa, a distanza di diciassette anni, rimettersi il casco (stavolta legale, non da corsa) per tornare a combattere quel Mondiale 2008 che non vuole saperne di lasciarlo in pace. Dopo anni di interviste, mezze verità e nostalgie da podio mancato, il brasiliano, è cosa nota, ha deciso di portare in tribunale la FIA e la FOM, colpevoli – secondo la sua ricostruzione – di aver insabbiato il famoso “Crashgate” di Singapore. Ieri si è tenuto un passo importante in questo dolente cammino che, mi sia concesso, sembra far male più al buon Felipe che alle parti chiamate in giudizio.
Un gesto coraggioso? Forse. Disperato? Anche. Ma soprattutto una domanda sorge spontanea: Caro Felipe Massa, ma chi te l’ha fatto fare? Perché in fondo la storia la conosciamo tutti. Quella sera di settembre del 2008, Piquet Jr si schianta deliberatamente contro il muro, aprendo la strada alla vittoria di Alonso e condizionando irrimediabilmente la corsa di Massa, finita nel caos del pit stop con il bocchettone della benzina ancora attaccato. Un episodio che, a distanza di anni, è diventato quasi leggenda. Eppure, per Felipe, non è mai passato. È rimasto lì, sospeso come una bandiera a scacchi che non arriva mai.

Ora il pilota brasiliano – che all’epoca perse il titolo per un solo punto, superato da Lewis Hamilton all’ultima curva dell’ultima gara di casa (e forse quello brucia davvero) – non chiede realisticamente la corona mondiale. Chiede giustizia morale e, già che c’è, 82 milioni di dollari di risarcimento. Una cifra che fa quasi più rumore della frizione della sua Ferrari al pit di Singapore.
La difesa della FIA, intanto, non si è fatta attendere. Con il tono asciutto di chi non intende concedere un centimetro, ha bollato la richiesta di Massa come “tortuosa” e “eccessivamente ambiziosa”. Traduzione: un po’ come cercare di vincere un mondiale in tribunale diciassette anni dopo. Ma il colpo di grazia arriva qualche riga dopo, quando la FIA ricorda che Felipe e la Ferrari di errori ne commisero parecchi, non solo quella notte di Singapore. Come dire: caro Felipe, prima di citare in giudizio il destino, magari riguardati quel pit stop.
Eppure, sotto l’ironia e la tragicità, resta una verità umana difficile da negare. Massa non cerca solo un risarcimento. Cerca una rivincita sulla Storia, su quella sensazione amara di aver perso qualcosa che gli spettava, non per colpa sua ma per un gioco più grande. Forse anche per scrollarsi di dosso l’etichetta del “quasi campione”, quel destino crudele che in Formula 1 è peggio di una sconfitta.

Ma in un mondo che corre veloce, il rischio è che questa battaglia finisca per apparire come una causa persa in partenza. Non per mancanza di ragione, ma per mancanza di tempo. Perché la F1 di oggi è fatta di Netflix, budget cap e aerodinamica attiva, e la memoria del 2008 ormai appartiene a un’altra era, quella delle tute ignifughe col colletto alto e dei pit-stop da sette secondi.
E allora sì, Felipe, la domanda resta: ma chi te l’ha fatto fare? Forse l’orgoglio, forse la nostalgia, forse il bisogno di rimettere un ordine morale in un mondo che ne ha sempre avuto poco. Ma a forza di rincorrere giustizia, si rischia di perdere la concretezza.
Crediti foto: Renault, Scuderia Ferrari
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