C’è qualcosa di profondamente stanco nel racconto che la Formula 1 si porta dietro ogni weekend: la narrazione del “campione del popolo”, del ribelle che non si piega, dell’eroe antisistema. Juan Pablo Montoya, stavolta un po’ troppo banale, ha rilanciato questo mito parlando di Max Verstappen come del “cattivo che non si fa mettere i piedi in testa”, un simbolo in cui i tifosi si identificano. Ma il punto è proprio questo: la Formula 1 non è un romanzo popolare, è uno sport.

Montoya, forse involontariamente, si fa portavoce di quella deriva spettacolare che negli ultimi anni ha trasformato la categoria in una saga di archetipi più che in una competizione. Eppure, la verità resta elementare: il campione del mondo è chi fa più punti, non chi colleziona più applausi.
Che Verstappen abbia incarnato il ruolo del dominatore, del pilota totale, è innegabile. Ma continuare a vestirlo dei panni del “campione del popolo” è una distorsione romantica che oggi non regge più. Perché il “popolo”, semmai, inizia a tifare per chi riesce davvero a batterlo, non per chi viene sconfitto (accadde proprio con Max quando ebbe la meglio di Hamilton). E chi lo sta facendo, gara dopo gara, con la lucidità di chi costruisce un percorso da vero campione, è Lando Norris.
Montoya sostiene che “in Brasile la Virtual Safety Car lo ha aiutato” e che “Norris lo sta battendo”, ma lo fa quasi come se Verstappen restasse il protagonista inevitabile, l’eroe che conserva l’aura del campione anche nella sconfitta. È qui che la sua analisi si svuota: in Formula 1, non esistono “campioni morali”.
Non ci sono “vittorie d’immagine” o “sconfitte nobili”. Ci sono solo risultati. E, numeri alla mano, il trend della stagione dice che Verstappen non è più il punto di riferimento assoluto. Norris sì. Il britannico non urla, non si atteggia, non costruisce personaggi. Sta semplicemente guidando al meglio comandando meritatamente in classifica.
Fa quel che deve Lando e lo fa con una macchina oggettivamente forte. Gestisce le gomme in modo pulito, massimizza ogni stint, evita errori inutili, e – fatto tecnico non trascurabile – ha imparato a sfruttare la McLaren MCL39 in ogni condizione.

Non serve raccontarlo come un messia della nuova generazione, perché la realtà è già sufficiente: sta vincendo. E questo, in Formula 1, è ciò che definisce un campione. Montoya, da ex pilota, conosce bene la logica del paddock. Sa che la popolarità è volatile, che il consenso mediatico non si traduce in titoli. Ma le sue parole, oggi, rischiano di alimentare un equivoco: che Verstappen resti “il vero” campione anche se qualcun altro conquista il mondiale. No. Il “vero campione” è colui che vince secondo le regole del gioco. E il gioco, in Formula 1, si chiama punteggio.
Lando Norris, probabilmente, non diventerà un simbolo popolare allo stesso modo. Non avrà la spavalderia del “cattivo” né la potenza narrativa di un personaggio polarizzante. Ma potrebbe prendersi qualcosa di molto più importante: il titolo. E quando ad Abu Dhabi si tireranno le somme, non serviranno citazioni o narrazioni. Basterà leggere la classifica. Perché in Formula 1 non esistono campioni del popolo. Esistono solo campioni. E, stavolta, quello vero potrebbe non chiamarsi Max Verstappen.
Crediti foto: Oracle Red Bull Racing
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