Poco prima del Gran Premio di Singapore, il presidente della FIA, Mohammed Ben Sulayem, ha “avvertito” i piloti di F1 di utilizzare un linguaggio più consono. Durante i team radio, infatti, complici l’adrenalina e la tensione della gara, si sentono spesso turpiloqui, che, seppur censurati, vengono trasmessi in mondovisione. Ben Sulayem ha voluto ricordare ai piloti che sono atleti, non “rapper”.
Questa è la premessa.
Alla conferenza stampa pre-GP di Singapore, Max Verstappen ha apostrofato la propria monoposto con una parolaccia. Il talento di Hasselt è stato convocato dai commissari e punito con lavori socialmente utili. Con il suo carattere irruento, Verstappen non ha fatto passi indietro e ha trovato il supporto di tutti gli altri piloti.
Dopo il Gran Premio del Messico, Charles Leclerc è caduto nello stesso “errore” del collega olandese, scusandosi immediatamente ma incorrendo comunque in una multa di 10mila euro, metà della quale sospesa.

F1: le rimostranze della GPDA nei riguardi della FIA
Oggi la GPDA, il sindacato dei piloti, ha rilasciato un comunicato in cui chiede alla FIA maggiore flessibilità riguardo al linguaggio utilizzato in conferenza stampa e trasparenza su come vengono spesi i proventi delle multe.
Dobbiamo considerare che il mondo è cambiato, e ogni parola detta viene analizzata al microscopio. La FIA vuole tutelarsi per evitare l’inevitabile attenzione negativa sui social, anche se questo spesso non fa altro che amplificare le controversie.
Tutti noi diciamo parolacce, ma in un contesto informale: al bar, al pub, tra amici, con persone che non ci giudicherebbero. In un ambiente più formale, come a un colloquio di lavoro, a un esame o con sconosciuti, eviteremmo, perché non sarebbe appropriato e darebbe una cattiva impressione.
La conferenza stampa è un incontro formale in cui i piloti, in quanto professionisti, rispondono alle domande di giornalisti altrettanto professionisti. Fuori da essa, ognuno può esprimersi come vuole, sia i piloti sia i reporter. La battaglia dei piloti su questa questione non riguarda la libertà d’espressione in senso stretto, ma piuttosto la facoltà di esprimersi in spensieratezza.

F1: forse la libertà d’espressione è altro
La vera lotta per la libertà d’espressione, quella seria, ha fatto e continua a fare numerose vittime anche nel mondo dello sport. Basti pensare a Muhammad Ali, il leggendario pugile che nel 1967 si rifiutò di partire per il Vietnam, perdendo così il titolo di campione dei pesi massimi e subendo una condanna. Solo nel 1971, grazie a un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti, riuscì a far annullare la sentenza.
Nel 1968, alle Olimpiadi di Città del Messico, i velocisti americani Tommie Smith e John Carlos, arrivati rispettivamente primo e terzo nei 200 metri, alzarono il pugno guantato durante l’inno per protestare contro il razzismo negli Stati Uniti. Al loro fianco, il secondo classificato, l’australiano Peter Norman, indossò un badge per i diritti civili. Smith e Carlos furono espulsi dal villaggio olimpico e denigrati in patria, mentre Norman fu cancellato dalla storia dello sport australiano, con un riconoscimento postumo solo dopo la sua morte.
Più recentemente, il calciatore olandese Anwar El Ghazi è stato sospeso dal Mainz per aver pubblicato un messaggio di pace dopo la guerra di Gaza. Rifiutandosi di scusarsi, è stato licenziato dal club. Dopo una battaglia legale, El Ghazi ha ottenuto il reintegro e un risarcimento, ma ha preferito svincolarsi e ora gioca per il Cardiff, in Championship.

La F1, in genere, si è sempre mostrata poco incline alle questioni sociali, continuando a organizzare gare in Stati che non rispettano i diritti civili. Solo con Lewis Hamilton e Sebastian Vettel ha iniziato a interessarsi, almeno in parte, al mondo reale. Nel 2020, Hamilton si è inginocchiato a ogni Gran Premio per sostenere il movimento Black Lives Matter, indossando un casco che ne promuoveva i valori.
Al Mugello, durante il GP Ferrari 1000, portava una maglietta che chiedeva giustizia per Breonna Taylor, sollevando numerose polemiche. Vettel, invece, indossò una maglietta con i colori dell’arcobaleno durante l’inno al GP d’Ungheria, in segno di solidarietà con la comunità LGBTQ+.
Se un pilota pronunciasse uno slogan come “Free Palestine” durante una conferenza stampa e venisse multato, lo difenderei con forza. Ma la libertà di dire parolacce, a mio parere, è priva di significato.
La Federazione può chiudere un occhio? Forse, ma anche i piloti devono fare la loro parte e capire che il mondo ascolta tutto. Se anche un errore grammaticale viene corretto, figurarsi una parolaccia. Il problema non è la FIA, né i piloti, ma il mondo in cui viviamo e a cui dobbiamo semplicemente adattarci.
Crediti foto: Mercedes-AMG Petronas F1 Team, Oracle Red Bull Racing, Scuderia Ferrari HP