Il Gran Premio del Brasile 2024, funestato dalle forti piogge, ha mostrato ancora una volta quanto la Formula 1 attuale sia dominata da una gestione conservativa e prudente delle condizioni atmosferiche. Pioggia battente, pista scivolosa e le auto restano ferme ai box, le sessioni vengono posticipate, e la competizione perde quel fascino selvaggio che l’ha sempre contraddistinta. Ma la pioggia è davvero così pericolosa? O la F1 moderna è vittima di una paura ingiustificata?
Il punto cruciale della polemica emerge dalle parole di Lewis Hamilton durante le qualifiche di sabato: “Dacci delle buone ruote da bagnato e usciamo!”. Un messaggio chiaro e diretto, lanciato non a un interlocutore qualunque, ma a Stefano Domenicali, CEO della F1, in diretta mondiale. Hamilton, come molti piloti e appassionati, sembra non comprendere perché la Formula 1 continui a non voler correre sotto la pioggia nonostante l’esistenza di gomme da bagnato altamente performanti.
Una F1 traumatizzata dall’incidente di Bianchi
Per capire questo immobilismo, occorre tornare indietro nel tempo, a uno dei momenti più bui della storia recente del motorsport: l’incidente fatale di Jules Bianchi nel 2014. La tragedia del giovane pilota francese a Suzuka, durante un Gran Premio caratterizzato da condizioni meteo estremamente avverse, ha scosso la Formula 1 nel profondo. Da quel giorno, la paura ha preso il sopravvento.
Sia chiaro, la sicurezza deve essere una priorità, ma si ha l’impressione che la Formula 1 sia rimasta intrappolata in quel trauma, incapace di superare il lutto e il terrore di un altro incidente simile. Da quel tragico evento, la gestione delle gare in condizioni di pioggia è diventata estremamente prudente, al punto da mettere in discussione il concetto stesso di corsa. Non importa che i regolamenti prevedano l’utilizzo di pneumatici full wet, in grado di affrontare le condizioni più difficili: la gara non si corre quasi mai quando il meteo diventa una variabile incerta.
Pneumatici da bagnato inutili: a cosa servono se non si usano?
Emblematico, in questo senso, il weekend di Interlagos. Le qualifiche posticipate per il maltempo, un’attesa interminabile per vedere scendere in pista vetture dotate di gomme da bagnato, ma che nessuno osa utilizzare. Si corre solo quando le condizioni migliorano, quando le nuvole si diradano e la pista si asciuga. Che senso ha produrre pneumatici da bagnato, se poi nessuno è disposto a usarli? Questa è la domanda che Hamilton ha posto, senza mezzi termini, agli organizzatori e che, giustamente, si pongono anche gli appassionati.
Il problema è evidente: la Formula 1 si è costruita la reputazione di essere l’apice del motorsport, la competizione che mette alla prova non solo la velocità e la tecnologia, ma anche la resistenza e la capacità di adattamento dei piloti. Dov’è finita questa sfida? Dove sono le gare che diventano leggendarie proprio grazie alle condizioni estreme, quelle che separano i campioni dagli altri?
La pioggia come nemico immaginario
Invece di essere trattata come una sfida, la pioggia è diventata il nemico da evitare a tutti i costi. Eppure, la pioggia ha regalato alcuni dei momenti più memorabili della Formula 1. Basti pensare a gare epiche come il Gran Premio del Giappone 1994, o il Gran Premio d’Europa 1993, in cui Ayrton Senna dominò sotto un diluvio memorabile, o ancora la straordinaria vittoria di Hamilton a Silverstone nel 2008. La pioggia è parte integrante della leggenda della F1, ma sembra che questa componente sia stata rimossa dal DNA delle gare moderne.
L’approccio della direzione gara e degli organizzatori appare paradossale: da un lato, si investe nella tecnologia per migliorare la sicurezza, come le ruote full wet, le visiere antiappannamento, i sistemi di drenaggio. Dall’altro, si evita qualsiasi rischio, mantenendo le vetture ferme ai box nonostante ci siano i mezzi tecnici per competere in sicurezza.
La F1 sta perdendo la sua anima?
Questa gestione conservativa rischia di far perdere alla Formula 1 il suo fascino originario. I fan non vogliono vedere auto ferme ai box o piloti che si lamentano per non poter correre. Vogliono l’adrenalina, le battaglie epiche, le sfide contro le forze della natura. Vogliono vedere gare dove il talento del pilota emerge grazie alla sua capacità di dominare l’auto su una pista bagnata, non solo grazie alla tecnologia.
È evidente che, dopo la tragedia di Bianchi, la Formula 1 abbia sviluppato una forma di fobia per la pioggia, un trauma che continua a influenzare ogni decisione. Ma questa paura non può continuare a governare lo sport. La sicurezza è fondamentale, ma non deve soffocare lo spettacolo.
Bisogna ritrovare il coraggio
Il GP del Brasile 2024 ha dimostrato che la Formula 1, nella sua forma attuale, è governata più dalla paura che dal coraggio. È giusto fare tutto il possibile per evitare un altro incidente come quello di Bianchi, ma non si può dimenticare che il motorsport è uno sport intrinsecamente rischioso. La F1 deve smettere di temere la pioggia e tornare a essere ciò che è sempre stata: una sfida estrema.
Se non si agisce subito, c’è il rischio che la F1 perda il suo appeal e che i tifosi si stanchino di uno spettacolo sempre più sterilizzato e prevedibile. Serve un cambio di mentalità, serve il coraggio di tornare a correre, anche sotto la pioggia.