In quella che è stata la seconda giornata di test di Formula 1, che si stanno tenendo sul circuito di Sakhir, in Bahrain, la rivista americana “Time” ha pubblicato una copertina in cui viene ritratto il sette volte campione del mondo di Formula 1, Lewis Hamilton, che ha rilasciato una lunga intervista.
In una parte di questo colloquio il dirver inglese si sofferma sulle difficoltà e sull’unicità di essere l’unico pilota di colore che abbia mai corso e vinto in Formula 1, una situazione che in futuro, molto probabilmente, non si ripeterà.
Una frase in particolare ha suscitato parecchio dibattito sui social: “Sono il primo e unico pilota di colore che abbia mai praticato questo sport”. Sappiamo fin troppo bene quanto il fenomeno di Stevenage sia divisivo, come quasi tutti i campioni, del resto. Sarebbe strano il contrario.
Alcuni hanno avuto da ridire, affermando che Hamilton non abbia dovuto lottare per emergere in un ambiente come quello della Formula 1, prendendo ad esempio il primo pilota americano di colore, Will T. Ribbs, che ebbe una breve esperienza nella massima serie come test driver della Brabham nel 1985.
Nessuno mette in dubbio l’impresa compiuta da Ribbs, soprattutto nella NASCAR; la tragica storia dei neri negli Stati Uniti è ben nota. Tuttavia, è altrettanto vero che, seppur ostracizzati in alcuni stati americani a causa del colore della pelle, molti atleti di colore riuscivano comunque a emergere nel panorama sportivo. Basti pensare al velocista e lunghista Jesse Owens, che vinse 4 medaglie d’oro ai IX Giochi Olimpici di Berlino nel 1936, proprio sotto gli occhi di Adolf Hitler.

Nel 1947, Jackie Robinson fu il primo giocatore di baseball a giocare in MLB, prima di ciò i giocatori bianchi e neri erano costretti a competere in due campionati distinti: la MLB e la Negro League.
Negli anni ’60, poi, assistemmo alla nascita di un mito come Muhammad Ali e ai pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico nel 1968. Successivamente, sarebbe arrivata la fioritura delle stelle nere nell’NBA e nell’NFL, le leghe di basket e football americano.
Vedendo questi esempi, è evidente che, prima o poi, un pilota nero nel motorsport americano sarebbe emerso. Gli Stati Uniti sono il Paese multietnico per eccellenza, con tutte le sue contraddizioni, ma restano anche la “Terra delle opportunità”, e quelle opportunità sono riservate a tutti, senza distinzioni.
La storia di Hamilton è molto più complessa, poiché proviene da un continente diverso, l’Europa, prevalentemente bianca. Oggi siamo abituati a vedere calciatori di colore nelle varie nazionali di calcio europee, soprattutto in Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, e anche la nostra nazionale ne vanta alcuni. Allo stesso modo, numerosi atleti neri partecipano alle Olimpiadi, ma una volta non era così. Tuttavia, a differenza della Formula 1, il calcio è uno sport più popolare, e riuscire ad intraprenderne una carriera è generalmente più accessibile.
La Formula 1 è uno sport prevalentemente bianco, e per entrare in essa bisogna avere talento. Se non si ha talento, l’unica via possibile è quella di ricorrere a una “valigia piena di soldi”. Per una famiglia benestante della classe media inglese, come quella di Hamilton, questa opzione non era percorribile.
Hamilton ha sfruttato il suo immenso talento per convincere una figura di spicco come Ron Dennis, approdando così nell’academy della McLaren. Da lì, il resto è storia.
Non minimizziamo l’impresa di Lewis Hamilton, anzi, dovremmo solo esaltarla per ciò che ci ha mostrato, sperando che non rimanga il primo e unico pilota di colore in Formula 1.
Crediti foto: Lewis Hamilton