È arrivata. Siamo in quella fase dell’anno che giunge puntuale come una bandiera rossa a Monaco, il momento in cui la Formula 1 smette temporaneamente di essere uno sport e diventa un esercizio di resistenza narrativa. È l’inverno, quella terra di mezzo (il riferimento al mondo fantasy del maestro Tolkien non è affatto casuale) in cui non si corre, non si prova, non si misura nulla, ma si scrive moltissimo. Forse troppo. Ed è lì che il racconto, anziché farsi più cauto, tende a perdere ogni pudore.
Si parte invariabilmente dai presunti scoop sui livelli di performance dei nuovi motori. Presunti perché, nella migliore delle ipotesi, si tratta di sussurri intercettati in corridoi ben riscaldati; nella peggiore, di pure congetture travestite da indiscrezioni. A dicembre e gennaio scopriamo che il motore X “sarebbe avanti”, che il motore Y “avrebbe risolto i problemi di affidabilità” e che il motore Z “sorprenderà tutti”. Peccato che nessuno abbia accesso ai laboratori in cui sono allocati i banchi prova e che le unità motrici non abbiano ancora girato in pista. Ma poco importa: l’importante è dare numeri, possibilmente con decimali, perché nulla comunica autorevolezza come un “sarebbe avanti di 15 cavalli”.
Poi arrivano le anticipazioni dell’ovvio, una categoria letteraria che meriterebbe una sezione a parte. “La vettura X sarà presentata questa settimana”. Grazie. La settimana dopo, notizia clamorosa, ci saranno i test. Prima in Spagna, poi in Bahrain. Come ogni anno. Da anni. È una narrazione che sembra scritta per un pubblico colto ma smemorato, come se il calendario fosse un mistero esoterico e non un documento pubblico. Si spaccia per breaking news ciò che è semplicemente la sequenza logica degli eventi, come se annunciare l’alba dopo la notte fosse un atto di giornalismo investigativo.
Il capolavoro, però, arriva con la frase feticcio: “La nuova auto non avrà nulla in comune con la precedente”. Qui la satira si scrive da sola. Siamo alle porte di una rivoluzione regolamentare, con concetti aerodinamici, architetture meccaniche e vincoli progettuali completamente diversi e qualcuno si sente in dovere di sottolineare che non ci sarà continuità tecnica. Cosa si sarebbe dovuto travasare, esattamente? I portamozzi per nostalgia? Il volante per affetto? L’affermazione viene spesso proposta con l’aria solenne di chi sta rivelando un segreto industriale, quando in realtà sta solo certificando di aver letto il regolamento.
Dietro tutto questo c’è una necessità quasi patologica di porsi come fonte autorevole in assenza di notizie. Non potendo raccontare i fatti, si racconta il contorno. Non potendo analizzare i dati, si analizzano le intenzioni, le voci, le sensazioni. È una corsa a chi “ne sa di più”, anche quando non c’è nulla da sapere, una gara di posizionamento editoriale che spesso scivola nel ridicolo. Il sottotesto è sempre lo stesso: fidatevi di noi, anche se oggi non c’è nulla di concreto da raccontare.
Così si finisce per bivaccare nel deserto delle notizie, piantando tende narrative fatte di ipotesi, condizionali e fonti anonime e mai certificate. Ma il bivacco, se protratto troppo a lungo, diventa accampamento stabile. E l’accampamento, alla lunga, presenta il conto. Perché ogni titolo urlato nel vuoto, ogni scoop evaporato alla prima accensione dei motori, ogni certezza smentita dal cronometro erode un po’ di credibilità. E la credibilità, in questo sport iper-analizzato, è l’unico vero capitale che un media dovrebbe difendere con ostinazione.
Forse l’inverno della Formula 1 andrebbe raccontato per quello che è: un tempo sospeso, utile per studiare, contestualizzare, spiegare le regole e preparare il terreno. Meno oracoli, meno rivelazioni, meno finte certezze. Perché il rischio, altrimenti, è arrivare alla prima bandiera verde già screditati, dopo aver promesso troppo a un pubblico che, a differenza di quanto si pensi, sa distinguere tra informazione e riempitivo. E non ha bisogno di essere intrattenuto con miraggi.
Seguici e commenta sul nostro canale YouTube: clicca qui




