Il rapporto tra Fernando Alonso e la stampa britannica è equiparabile a quello tra cani e gatti. Seppur nella massima categoria del motorsport abbia corso con ben due team inglese, la McLaren per ben due volte e la sua attuale scuderia, l’Aston Martin, il fenomeno di Oviedo ha sempre avuto parole dure contro i media della terra d’Albione.
Dopo l’ottima prestazione di Gabriel Bortoleto nello scorso Gran Premio d’Ungheria, in conferenza stampa, Alonso ha avuto parole dolci verso l’alfiere Sauber utilizzando la performance del brasiliano per attaccare la stampa britannica, accusandola di sottovalutare il campione della F2 perché non inglese.
Parole che lasciano il tempo che trovano visto altri piloti non inglesi, per esempio il francese di origine algerina della VCARB, Isack Hadjar, hanno ricevuto elogi unanimi senza tener conto del suo paese natale. Ma quanto conta davvero essere inglesi in Formula 1? Essere inglesi offre vantaggi strutturali e culturali, ma il successo dipende comunque da talento, risorse e opportunità. Vediamo quali.

La “Motorsport Valley” e l’ecosistema britannico della F1
La Gran Bretagna è il cuore pulsante della Formula 1 a livello tecnico e logistico. La cosiddetta “Motorsport Valley“, un’area compresa tra Oxfordshire, Northamptonshire e dintorni, ospita la maggior parte dei team della massima categoria dei motori. Nel 2025, sette dei dieci team hanno la loro sede principale nel Regno Unito:
- Mercedes a Brackley;
- Red Bull a Milton Keynes;
- McLaren a Woking;
- Aston Martin a Silverstone;
- Alpine a Enstone;
- Williams a Grove;
- VCARB seppur abbia una sede a Faenza, ha forti legami operativi nel Regno Unito, dove risiede la casa madre, la Red Bull.
Questo concentra un’enorme quantità di competenze ingegneristiche, tecnologiche e logistiche in un’area geografica ristretta.
La vicinanza ai team facilita l’accesso a opportunità di lavoro per ingegneri, meccanici e tecnici britannici. I piloti inglesi, inoltre, possono partecipare più facilmente a test (laddove consentiti), eventi promozionali o sessioni al simulatore, riducendo costi e tempi di viaggio rispetto ai colleghi di altri Paesi.
Secondo dati pre-2025, circa il 70% delle aziende legate al motorsport mondiale ha base nel Regno Unito, contribuendo a un settore che genera oltre 4 miliardi di sterline all’anno e impiega decine di migliaia di persone. Questo ecosistema offre un terreno fertile per i talenti britannici, sia in pista che fuori.

Tradizione e cultura motoristica della F1 nel Regno Unito
La Gran Bretagna ha una storia leggendaria nel pinnacolo del motorsport, che rafforza il prestigio e le opportunità per i piloti inglesi. Dal primo campionato mondiale nel 1950, i piloti britannici hanno vinto 20 titoli mondiali, più di qualsiasi altra nazione. Figure come Jackie Stewart, Jim Clark, Graham e Damon Hill, Nigel Mansell, Damon Hill, Jenson Button e Lewis Hamilton hanno costruito una tradizione di eccellenza.
Il Regno Unito ha un sistema di campionati junior come la Formula 4 britannica, la GB3 e la GB4 che alimenta il talento locale. Circuiti iconici come Silverstone, Brands Hatch e Donington Park sono terreno di prova per giovani piloti, spesso sotto gli occhi di osservatori dei team di Formula 1.
George Russell, pilota della Mercedes, emerso grazie a questo sistema, vincendo la F3 e la F2 prima di approdare in F1. La sua carriera è stata supportata da programmi britannici come il Mercedes Junior Programme, con base nel Regno Unito.
Vantaggi linguistici e mediatici
L’inglese è la lingua franca della Formula 1, usata per comunicazioni radio, riunioni tecniche e contratti. I piloti britannici non devono affrontare barriere linguistiche, il che facilita l’integrazione nei team e la comunicazione con ingegneri e media.
La Gran Bretagna ha una stampa motoristica influente come Autosport o Motorsport e un pubblico appassionato, che amplifica la visibilità dei piloti inglesi. Questo può attirare sponsor, fondamentali in uno sport costoso.
Limiti e competizione globale
Nonostante i vantaggi, essere inglesi non garantisce il successo. La F1 è uno sport globale, e piloti di altre nazioni competono ad altissimo livello. Basti a pensare a pluricampioni non inglesi del passato, come Alain Prost, Niki Lauda, Ayrton Senna, Emerson Fittipaldi, Nelson Piquet, Mika Hakkinen, Michael Schumacher ma anche del presente come Alonso e Max Verstappen.

I costi elevati della Formula 1, spesso milioni di euro per arrivare alle categorie propedeutiche possono limitare l’accesso anche per i talenti britannici senza sponsor o supporto finanziario. Piloti come Hamilton, proveniente da un contesto non privilegiato, sono eccezioni piuttosto che la regola.
Essere inglesi in Formula 1 offre vantaggi tangibili: accesso a team, infrastrutture, circuiti e un sistema di supporto consolidato. La “Motorsport Valley”, la tradizione vincente e la centralità del Regno Unito nel mondo dei motori creano un ambiente favorevole. Tuttavia, il talento individuale, la preparazione e il supporto economico sono altrettanto cruciali. Piloti non britannici come Max Verstappen dimostrano che il successo è universale, e in pista la nazionalità conta meno di velocità, strategia e costanza.
Alonso potrà continuare la sua crociata contro l’Inghilterra, ma se Bortoleto dovesse diventare un giorno un campione del mondo lo sarà per le sue innate capacità, non perché sia brasiliano piuttosto che inglese. Le nazionalità, in pista, non ci vanno.
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Crediti Foto: EverythingF1, IMAGO/ZUMA Press Wire, Arquitecturaviva,