Certe notizie non si raccontano, si piangono. Imola, Autodromo Enzo e Dino Ferrari. Ieri è andata in scena l’ultima rappresentazione che è stata all’altezza del nome che il circuito porta. Max Verstappen ha vinto per la quarta volta consecutiva: un record che lo consacra nell’olimpo di questo sport e nelle pietre su cui è posato l’asfalto di un impianto straordinario.
Imola non è un circuito è un altare. Un pezzo d’anima incastonato tra le colline dell’Emilia Romagna, dove ogni curva è memoria, ogni cordolo un battito del cuore della Formula 1. Ed è proprio lì che domenica si è consumato non solo un Gran Premio, ma una sorta di funerale festoso. L’ultimo giro, l’ultima bandiera a scacchi, l’ultimo urlo dei motori di Formula 1 – che invero gridano poco – in quel luogo sacro. Liberty Media ha deciso: Imola non sarà più nel calendario.

Imola sacrificata sull’altare del profitto
E allora cos’è rimasto? Applausi spezzati dal vento, occhi lucidi in tribuna, e da oggi un silenzio che grida vendetta più di mille polemiche. Perché non si tratta solo di un contratto non rinnovato. Si tratta di tradimento alla culla del motorsport italiano, a quella motorvalley fiore all’occhiello dell’industria motor-sportiva tricolore. Un atto d’infedeltà firmato da un figlio di questa terra, Stefano Domenicali, che si fa latore di interessi più alti e di chi la storia la accartoccia e la getta via senza troppe remore. Quella Liberty Media che ha barattato il cuore con i soldi. La verità nuda e cruda è questa.
Imola non è “solo un altro circuito europeo”. È dove Ayrton Senna ha lasciato la sua vita e la sua leggenda. È dove la Ferrari, sotto il cielo d’Italia, combatte come una madre davanti ai suoi figli. È dove la passione non è una trovata di marketing, ma un legame generazionale, di sangue e di pelle. La curva del Tamburello, la Rivazza, la Tosa, la Piratella, le Acque Minerali, la Villeneuve, la Variante Alta: non sono nomi, sono cicatrici e carezze di un amore che dura da decenni.
Liberty Media, con la sua visione globale, patinata, filtrata e impacchettata per i nuovi mercati, ha deciso che Imola è poco redditizia. Meglio nuovi tracciati in deserti scintillanti, palcoscenici surreali dove lo spettacolo è tutto e la storia niente. Circuiti senz’anima, con tribune offuscate dai lustrini e pubblico poco avvezzo allo spettacolo che osserva in pista. Ma belli per le cartoline.
A cosa serve una Formula 1 che dimentica il suo cuore? Che senso ha correre in 24 tappe se nei momenti cruciali il battito si spegne? La F1 non può vivere solo di numeri, engagement, hospitality e influencer. La F1 nasce nei box con l’odore dell’olio, sotto il sole cocente di Imola, tra le urla dei meccanici e il calore pulsante di un popolo che respira benzina.

E così, dopo Monza che si è salvata per il rotto della cuffia con un rinnovo pluriennale, dopo Hockenheim dimenticata, dopo Spa-Francorchamps a corrente alternata, vittima delle diaboliche rotazioni, anche la pista che sorge in prossimità del Santerno viene strappata via. Con eleganza, certo, con dichiarazioni di circostanza, con la promessa di un “forse tornerà”. Ma è così che si uccide una leggenda: pian piano, con l’indifferenza vestita da progresso.
Chi era lì ieri, lo sa. Chi ha sentito il rombo rimbalzare sulle tribune, lo sa. Chi ha gioito davanti a quel podio orfano della Ferrari, lo sa: non è stato un arrivederci. È stato un addio. E quando la prossima stagione si aprirà tra fuochi d’artificio e luci al neon, noi non dimenticheremo. Perché i tifosi hanno memoria lunga, e soprattutto, hanno cuore. E Imola, quel cuore, lo ha fatto battere come nessun altro.
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