Ospite del nostro programma CriticaLive, in onda tutti i lunedì sui nostri canali social, l’ingegnere Luca Baldisserri ci ha regalato un bellissimo ricordo di Michael Schumacher, uomo e professionista, e ci ha svelato i retroscena di quell’incredibile GP di Francia del 2004.
Ma andiamo con ordine. L’ingegnere bolognese, con la sua pacatezza e disponibilità, ricorda i suoi trascorsi in casa Ferrari: “Ho iniziato il mestiere di race engineer dopo una crescita avuta in Ferrari. Sono partito lavorando sui cambi e altri sistemi elettronici, per poi occuparmi di telemetria e lavorare insieme al caro Gigi Mazzola. Lui era race engineer di Gerhard Berger e io il suo telemetrista. Da lì poi ho approfondito tutti i discorsi di dinamica veicolo e sono passato al ruolo di race engineer. Ho debuttato con Eddie Irvine proprio l’anno in cui Michael (Schumacher, ndr) arrivò in Ferrari, nel ’96”.
“Dal ’96 al ’99 ho lavorato con Irvine. Nel 1999 abbiamo vinto il Mondiale Costruttori e sfiorato il Mondiale Piloti. Sarebbe stata una disgrazia assurda per la Ferrari, sinceramente, perché riportare il Mondiale in Ferrari dopo 20 anni… Non si vinceva dai tempi di Jody Scheckter. Vincere con il signor Eddie Irvine sarebbe stato un disastro, sinceramente. E infatti, in qualche modo, non è successo. E mi fermo qui”, ha aggiunto cripticamente l’ingegnere.

L’incarico di Ingegnere di pista al fianco di Michael Schumacher
Il suo racconto poi prosegue, spiegando come è arrivato a lavorare al fianco del pluricampione tedesco e cosa significava fare parte della sua squadra.
“L’organizzazione in Ferrari, come in tutti i team, prevedeva due race engineer e tutta una serie di personaggi che lavoravano con lui su una macchina e sull’altra. Con Michael lavoravo fianco a fianco, ma non direttamente sulla sua vettura. Quando poi è successo il problema nel ’99, quando ha avuto l’incidente a Silverstone e si è dovuto fermare – si era rotto la gamba, ecc. – io ho continuato a lavorare con Eddie. Abbiamo fatto molto bene e alla fine dell’anno, ricordo, mentre ero in vacanza in Messico, mi chiama Ross Brawn e mi dice: ‘Guarda, l’anno prossimo lavorerai con Michael’. Sai, la cosa ti fa piacere chiaramente, però in qualche modo ti responsabilizza di più”.
“Perché conoscevo Michael e conoscevo il personaggio, nel senso che è un uomo, come si dice in inglese, demanding, cioè lui era assolutamente un pignolo dell’assetto. Voleva analizzare la telemetria fino agli ultimi metri dell’ultima curva per capire come le sospensioni si muovevano, in che modo lui sentiva certi movimenti della macchina e ragionava sul ‘qui non mi hai messo un millimetro in più o un millimetro in meno’. Si faceva veramente tardi la sera, ma era un lavoro che facevi con voglia, perché capivi che dall’altra parte avevi un pilota che effettivamente capiva quello che stavi facendo. Questa è la cosa che mi ha impressionato di più del personaggio, dell’uomo Michael, del professionista e del pilota”.
“Al di là di questo, come uomo, era in uno step diverso. Aveva capito come far lavorare la squadra, non tanto per far vincere la squadra Ferrari, ma per far vincere lui. E questo è diverso, non è da tutti, non è da campioni del mondo. È da superstar, è da campioni veri, perché quando si raggiunge questo tipo di lavoro, soprattutto quando hai tanta competizione, il risultato lo ottieni concentrando gli sforzi su un personaggio solo”.

I quattro pit stop del Gp di Francia 2004
Legandosi proprio all’esperienza fianco a fianco con Michael Schumacher, la domanda sul fatidico Gran Premio di Francia del 2004 e le storiche quattro soste è venuta naturale, con la curiosità di conoscere come è maturata quella decisione, sembrata decisamente “folle” all’epoca.
“C’è una premessa da fare sicuramente. Il modo in cui impostavamo le strategie a quei tempi era un po’ diverso da quello che viene fatto adesso. Innanzitutto per il fatto, sottovalutato dalla gente, della presenza del rifornimento. Adesso è tutto abbastanza più nebuloso, il fatto che la variabile peso sia resettata. Tutte le macchine girano allo stesso peso, praticamente. L’effetto peso, invece, in una monoposto, in qualunque monoposto, è molto importante, sia in F4 che in F1″.
“L’altro discorso è che noi avevamo un avversario in particolare, che era la Renault con Alonso, quindi il discorso di giocare la strategia con un avversario era un pochettino più semplice. È vero che non erano mai stati fatti quattro pit stop, è vero altresì che Magny-Cours aveva una conformazione un po’ atipica. Avevano scelto quell’anno una velocità ai box abbastanza alta e il tempo perso per il pit stop era limitato – ha proseguito – Ora non ricordo bene i valori, ma credo fosse al di sotto dei 6/7 secondi. Io, allora, ero il braccio destro di Ross Brawn, impostavo le strategie e avevo la responsabilità di tutta l’ingegneria di pista, però l’impostazione della strategia la facevo io insieme ad altri ragazzi a casa”.
“Al meeting del giovedì presentai la relazione che avevamo fatto, i calcoli che avevamo preparato e ho detto: ‘Attenzione che qua i quattro pit stop potrebbero essere una variabile’, e come dite voi, tutti mi hanno guardato come a dire: ‘Ma sì, vabbè, ok, lasciala lì nel cassetto’. Avevo lasciato comunque questo germe di idea al mio boss, che era appunto Ross, che ha compiuto 70 anni da poco, tra l’altro”.
“Al che la gara si è evoluta in un determinato modo e noi siamo arrivati al fatto che Alonso aveva ‘pittato’ (faccio un po’ fatica a ricordarmi i dettagli) e al suo ultimo pit stop, e noi eravamo ancora dietro. L’unico modo per noi per superarlo era fare qualcosa di diverso. E fare qualcosa di diverso era cercare di trovare il modo di fare quella decina di giri da qualifica, per riuscire a guadagnare quel tanto da poterci poi permettere quell’extra pit stop”.
“Tutto questo in un numero limitato di giri, perché avevamo già fatto quasi più della metà di gara. E grazie anche alla macchina e al pilota, che era in grado di fare in gara dei giri consistenti e veloci come se fosse una qualifica, siamo riusciti a portare a casa quello che in teoria non si poteva fare. Ma Michael era l’unico che poteva guidare con le prestazioni del pilota ideale, quello che segue le variabili: la prestazione della macchina dovuta alla benzina, quindi al peso della macchina e alla prestazione della gomma. A quei tempi, solo Schumacher poteva fare qualcosa del genere”.
Crediti foto: F1, Ercole Colombo