GP Canada – Il circuito di Montréal fa la sua comparsa in un freddo fine settimana di ottobre, tra raffiche di vento che sferzano i volti e gocce di pioggia gelata che paiono sul punto di trasformarsi in neve. L’aria profuma di ghiaccio, è come una lama tagliente che si insinua nelle narici e nei pensieri. Gilles respira a pieni polmoni quell’aroma: il figlio del grande nord si sente a casa.
Il grigio del cielo non riesce a stemperare tensioni e sospiri, a mitigare il contrasto cromatico offerto da quella sfida: nero e rosso come un giro di roulette. La splendida Lotus, orfana di Ronnie Peterson, scatterà dalla pole tra le mani di Jarier, la straripante Ferrari inseguirà dalla seconda fila sotto il piede magico di Villeneuve. A separarli la Wolf di Scheckter, anch’essa corvina, anch’essa dannatamente veloce.
All’idolo locale serve un’impresa, per ringraziare il suo pubblico, per ripagare la fiducia di Enzo. Gilles sarà un pilota della Rossa anche nella stagione successiva e vuole dimostrare di meritarlo. L’asfalto è scivoloso e lucente, ma il canadese non cede alla sua voluttà, amministra, non attacca, si accoda. Diviene un guardingo cacciatore pronto a studiare le prede. Si lascia sfilare da Jones, poi mantiene il contatto e i nervi saldi.
Vede capitolare molti avversari in rocambolesche uscite di pista o per via di episodi sfortunati. Tocca anche a Jones, vittima di una foratura. Ora Villeneuve mette il suo futuro compagno di squadra nel mirino. Jody prova a resistere, a volare come il letterario gabbiano -Fletcher- di cui porta il soprannome. Ma l’aria di Montréal è l’elemento dell’Aviatore: alla staccata dell’épingle si consuma il sorpasso, brutale e deciso, di quelli che invitano alla resa.
Gilles continua la sua marcia alla ricerca di uno spiraglio, ma la Lotus è là davanti, meravigliosa e irraggiungibile, pronta a domare il freddo con il nero mantello. D’un tratto l’incedere si fa più lento, le traiettorie diventano singhiozzanti. La postura regale viene sostituita da un lento arrancare. I freni, messi a dura prova dalle caratteristiche peculiari del tracciato, alzano bandiera bianca e costringono Jarier al ritiro.
Il piccolo canadese è in testa al suo gran premio, con la sua Ferrari. Vorrebbe farla urlare, vorrebbe cercare l’ebbrezza del limite. Invece sceglie la via della sobrietà, risparmiando la meccanica, ascoltando ogni vibrazione del motore con la pazienza di un confessore. Quando transita sotto la bandiera a scacchi è pronto per l’assoluzione: solo allora la sua gioia esplode in un grido, che si accorda all’unisono con il rombo della vettura.
L’8 ottobre 1978 Gilles celebra la prima delle sue sei indimenticabili vittorie. Lo fa avvolto da una pesante giacca, brindando con una bottiglia di birra, nell’abbraccio del vento, tra le carezze del freddo. Non si ammala il nostro aviatore, ma manda in delirio i suoi tifosi, che da allora e per sempre avranno addosso quella febbre, la febbre Villeneuve.
Sono trascorsi quasi diciassette anni. La Ferrari ha fame di vittoria, brama un nuovo iride dopo l’ultimo, conquistato nel lontano 1979, grazie all’abilità di Scheckter e alla lealtà di Villeneuve. A Maranello c’è un ragazzo minuto che parla con l’accento francese. Persino lui è un po’ folle, esuberante e incontenibile. I tratti del suo viso non sono delicati e leggiadri come quelli di Gilles, ma gli occhi azzurri s’illuminano sempre al cospetto di una Ferrari e la fossetta sul mento diviene un punto esclamativo mentre sorride alla Rossa.
Alesi è determinato e tenace, istintivamente veloce, adorabilmente sanguigno. Nativo della Provenza, ma orgoglioso delle sue origini siciliane, di quell’isola arsa dal sole che gli somiglia ben di più degli immensi campi di lavanda. Dalla città dei Papi alla Motor Valley, passando per le campagne inglesi al suo esordio in F1 con la Tyrrell. Dal 1991 si cala nell’abitacolo della Rossa, per cinque indimenticabili anni di ardore e di sofferenza. Stagioni difficili, avare, costellate di amarezze e delusioni.
Jean sembrava essere nato sotto una cattiva stella. Perennemente bersagliato dalla malasorte, costantemente alle prese con le disfatte. Avrebbe potuto diventare cinico, invece ha conservato la fiducia e l’ottimismo. Così la Dea Bendata, che troppe volte l’aveva dimenticato e irriso, ha deciso di premiarlo, coronando il suo sogno proprio nel giorno del suo trentunesimo compleanno.
L’11 giugno del 1995 va in scena il Gran Premio del Canada. Sul circuito di Montréal, intitolato a Gilles, Jean riesce a librarsi in volo, a liberarsi una volta per tutte della sfortuna. La Ferrari numero 27 parte dalla quinta piazza. Otto decimi a separarla dalla pole dell’infallibile Schumacher. Sogni di gloria che potrebbero infrangersi anche contro la corazzata delle due Williams ed essere definitivamente spezzati dal compagno Berger che lo precede.
Invece Alesi fa faville, si fa largo, avanza e danza. Sorpassa Gerhard, vede Coulthard annientato da un testacoda. Al giro 17 è la volta di mettere nel mirino anche Hill e di sbarazzarsene senza pietà. Resta solo Michael là davanti, l’ultimo baluardo a ricacciarlo nella terra dei perdenti. Ma questa volta il cielo è dalla sua parte. Quando mancano solo dodici giri alla fine accade l’impensabile: un problema di natura elettronica costringe la Benetton di Schumacher a un’infinita sosta ai box.
Jean finalmente è il numero uno. Saranno le lacrime ad accompagnarlo sino alla bandiera a scacchi, gocce luminose come stelle cadenti di un desiderio esaudito, sale sul volto di un uomo che ha raggiunto il suo traguardo.
C’è spazio anche per l’imprevisto, perché il ferrarista, nel giro d’onore, viene piantato in asso dalla sua vettura ingorda di benzina. La Rossa numero 27 rimane così adagiata sul prato verde, Alesi invece si siede sulla Benetton di Michael, che gli offre un provvidenziale passaggio verso la festa, verso la gloria. Lassù, dal gradino più alto del podio, il minuto francese fa pace con il destino.
Crediti foto: Scuderia Ferrari HP