Adrian Newey non ha bisogno di presentazioni. Con un curriculum che include dieci titoli mondiali Costruttori e un numero impressionante di monoposto vincenti, il suo arrivo in Aston Martin rappresenta uno degli snodi più attesi nella recente storia della Formula 1. Ma l’ingegnere britannico, oggi sessantacinquenne, non si lascia travolgere dall’entusiasmo mediatico. È pacato, razionale. E soprattutto, metodico. Virtù che ha sempre usato nella sua brillante carriera.
“In questa fase sto cercando di comprendere appieno la struttura del team”, spiega Newey ai canali ufficiali del team. Il suo approccio, come sempre, parte dall’osservazione. Dialoga con i reparti, si immerge nei processi, valuta le dinamiche interne prima ancora di pensare alle modifiche da apportare. “È fondamentale capire cosa funziona e dove possiamo intervenire. Il cambiamento deve avere basi solide”.
Chi lo conosce bene sa che non ha mai abbandonato il disegno manuale. Anche oggi, in un’era dominata da simulazioni avanzatissime e software predittivi, Adrian continua a utilizzare il tecnigrafo. “Disegnare a mano ha ancora un valore inestimabile. Mi aiuta a visualizzare la macchina in modo più istintivo, più diretto”.

Il suo arrivo a Silverstone ha inevitabilmente acceso le aspettative. Ma Newey non si lascia condizionare. “La pressione esterna non mi tocca. Se c’è una pressione, è quella che viene da me stesso: pretendo molto dal mio lavoro. Ma non si può pensare di trasformare tutto da un giorno all’altro. Serve pazienza, visione e continuità”.
Il confronto con il suo passato in Red Bull è inevitabile. Quando sbarcò a Milton Keynes, nel lontano 2006, ci vollero quattro anni per arrivare ai primi successi. “Anche lì ci siamo costruiti un’identità tecnica passo dopo passo. È un processo naturale in Formula 1, non ci sono scorciatoie”.
Il 2026, con il suo imponente pacchetto di novità regolamentari, rappresenta un’occasione irripetibile. Nuova aerodinamica, nuova architettura dei propulsori, nuove sfide da decifrare. “È un’opportunità per chi ha il coraggio di osare. Siamo di fronte a un cambiamento simile, per portata, a quello del 2009. È un momento in cui puoi davvero segnare la differenza”.
Ma come si mantiene viva la creatività in un contesto iperstrutturato, dove le squadre contano centinaia di ingegneri e ogni decisione passa attraverso filtri multipli? “La chiave è l’integrazione”, risponde Newey. “Bisogna trovare una direzione chiara e fare in modo che tutti lavorino allineati. Quando i reparti comunicano, le intuizioni emergono più facilmente. Ed è lì che nasce la performance”.

Il suo rapporto con la tecnica è viscerale. Da sempre affascinato dal punto di incontro tra estetica e funzione, ha cominciato a disegnare automobili molto prima di avere un ruolo formale in una scuderia. “Non ho mai pensato di avere un dono. Semmai, è stata la passione a guidarmi. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone straordinarie, da cui ho imparato moltissimo”.
In un ambiente dominato dai numeri, dove ogni soluzione è testata al simulatore prima ancora di essere discussa, sorprende sentirlo parlare con forza dell’importanza dell’intuito. “I dati sono strumenti. Ma se non li interpreti nel modo giusto, possono fuorviarti. L’esperienza, il colpo d’occhio, la capacità di cogliere anomalie o opportunità: tutto questo conta ancora. E molto”.
È questo il nucleo della sua filosofia tecnica: fidarsi delle sensazioni, senza ignorare la scienza. “Le tecnologie sono cambiate, ma la missione è la stessa: costruire una macchina più veloce e più efficiente degli altri. Ed è lì che si gioca tutto”.
Alla domanda su cosa lo motivi ancora, dopo oltre trent’anni ai vertici del motorsport, Newey risponde con una semplicità disarmante: “Mi diverto. Finché avrò voglia di entrare in officina al mattino, vorrà dire che vale la pena continuare”.
Crediti foto: Aston Martin
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